Dopo il ritiro di Joe Biden, nel luglio scorso, Kamala Harris era subito emersa come la scelta più naturale dei democratici nella sfida presidenziale 2024. Harris era la vice di Joe Biden. Era espressione della nomenclatura del partito. Era colei che garantiva la successione senza che si scatenasse una faida interna. Harris mosse i primi passi della campagna tra l’entusiasmo dei democratici e una copertura in fondo benevola da parte dei media. Due mesi e qualcosa dopo, quell’entusiasmo si è in buona parte dissolto. Harris ha perso buona parte del vantaggio che aveva nei sondaggi estivi e ciò che resta è la trepidazione dei democratici per il risultato. Harris ha certo garantito una successione “morbida”, dopo il ritiro di Joe Biden. La sua campagna 2024 è però stata da segnata da importanti elementi di debolezza, sia a livello personale che di contesto politico.
Iniziamo dal limite forse più forte della candidatura – che solo in parte dipende da lei. Per Harris, era indispensabile distinguersi da Biden, uno dei presidenti più impopolari della recente storia americana. Indispensabile, ma non facile. Da un lato Harris non poteva prescindere da una propria fisionomia politica. Dall’altro, non poteva disconoscere il lavoro dell’amministrazione di cui ha fatto parte. Per settimane, Harris ha cercato di barcamenarsi, tra frasi tipo “Biden in un mandato ha realizzato di più di quanto molti presidenti hanno fatto in due”, a rivendicazioni come “ovviamente, io non sono Joe Biden”. Questa ambiguità è durata fino alle ultime settimane, quando Harris ha cominciato a distanziarsi in modo talora forte dalle uscite – meglio, dalle gaffe – di Biden. In particolare, quella secondo cui “gli unici che galleggiano su un’isola di spazzatura sono i repubblicani”. “Disapprovo con fermezza ogni critica alle persone sulla base di chi votano”, ha spiegato Harris. Ciò non toglie che su una serie di questioni importanti – dall’economia al confine alle guerre in Ucraina e Gaza – Harris non sia riuscita davvero a differenziarsi da Biden. E questo non l’ha aiutata.
Il secondo elemento di debolezza della sua candidatura discende in certo modo dal primo. Trovandosi costretta a rivendicare, nella differenza, l’eredità di Biden, Harris è apparsa spesso vaga, incapace di dare quelle risposte che gli americani chiedevano. Ha parlato troppo poco di economia, e quando lo ha fatto – con le proposte di tagli alle tasse per la middle-class, gli incentivi per la piccola impresa e la difesa dell’Obamacare – è parsa collocarsi sulla scia di Biden, lontana dall’offrire il senso di un vero cambiamento rispetto a un presidente giudicato da molti americani pessimo nelle scelte economiche (non è vero, l’economia Usa è tutt’altro che in recessione, ma questo sarebbe un altro, lungo capitolo). Oltre che accusare Trump di aver fatto fallire un’intesa sulla sicurezza al confine, Harris non ha in realtà spiegato quale direzione vuole dare alle politiche migratorie. Nella direzione segnata da Biden sono state anche le sue prese di posizione sulla guerra a Gaza. Debole è sembrata la gestione di Biden della guerra e del rapporto con Israele. Deboli, incapace di incidere, sono sembrate le proposte di Harris sul Medio Oriente. Alla fine, questa sua vaghezza, questa inconsistenza nei contenuti hanno fatto infuriare anche i commentatori amici. Sul New York Times, Todd Purdum ha detto che Harris “non può permettersi di ripetere risposte mandate a memoria”. Sul conservatore Wall Street Journal, Peggy Noonan ne ha criticato “l’evasività priva di arte”. A uno degli ultimi, più importanti eventi della campagna, un town hall organizzato da CNN in Pennsylvania, Harris si è rifiutata di dire quali saranno le sue priorità legislative. Per una candidata che ha chiamato la sua campagna “A New Way Forward”, una nuova strada davanti, è stato un po’ poco. Più che altro, non si è capito dove porta la strada.
Quanto detto sinora va in parte ricondotto alla personalità e alle doti personali di Harris. La vicepresidente è in buona parte una politica “di apparato”. Se paragonata ai tre candidati democratici che l’hanno preceduta, non ha la visione di Barack Obama, non ha la preparazione di Hillary Clinton, non conosce i meccanismi del gioco politico come Biden. Più che una visione della società, Harris ha portato nel suo impegno politico un pragmatismo che l’ha fatta seguire, volta per volta, l’interesse suo e la disciplina di partito. Da procuratrice della California, è stata accusata di essere la “top cop”, la capa della polizia, riempiendo le prigioni di migliaia di giovani neri, difendendo la pena di morte e rivendicando misure come l’incarcerazione dei genitori degli alunni che non seguono regolarmente le lezioni a scuola. Come candidata alle primarie democratiche del 2020, Harris ha adottato invece una piattaforma a sinistra di Biden, a favore dell’assistenza sanitaria universale e contro il fracking. Da candidata alla presidenza degli Stati Uniti, ha di nuovo ribaltato diverse posizioni importanti, per esempio proprio su fracking e sanità, in nome di un progetto molto più moderato. Questa sua capacità di adeguarsi al contesto è del resto la ragione perché il partito ha scelto proprio lei. Ma è anche la ragione che rende un po’ priva di luce la sua candidatura.
C’è infine un’ultima debolezza nella candidatura di Harris. E non dipende da lei. È il fatto di essere donna. Molti sondaggi dimostrano che, rispetto a Biden, Harris perde settori non indifferenti di voto nero e ispanico, attratti dalla valanga di promesse di Donald Trump ma anche a disagio con la scelta di una donna come presidente degli Stati Uniti. Del resto, queste elezioni si sono sviluppate secondo linee chiaramente di genere. Il 60 per cento dell’elettorato di Trump è costituito da uomini. Il 60 per cento dell’elettorato di Harris, da donne. Il famoso “tetto di cristallo”, l’esclusione delle donne dalla carica politica più importante, di cui Hillary Clinton invocava la distruzione, è ancora lì. Una parte dell’America – forse – non pensa a una donna, quando deve scegliere il presidente.