La cooperazione militare, i colloqui sul clima, la guerra contro il fentanyl. Con l’avvicinarsi delle presidenziali americane, Cina e Stati Uniti hanno ripristinato quasi tutti i meccanismi di dialogo sospesi negli ultimi anni di tensioni. Certo, senza la certezza che reggeranno a un possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma con la speranza che ora sarà un po’ più difficile premere di nuovo il pulsante stop. Tra i dossier più a rischio figura quello sull’immigrazione illegale negli Stati Uniti, tema scivoloso su entrambe le sponde del Pacifico.

La notizia è passata un po’ in sordina: tra luglio e ottobre quasi 250 cinesi sono stati deportati a bordo di due voli charter. Prima operazione dal 2018 concertata dal dipartimento della Sicurezza interna americano e l’Amministrazione nazionale per l’immigrazione cinese. Quella sui rimpatri era stata tra le tante collaborazioni sospese unilateralmente da Pechino in risposta alla visita dell’ex speaker della Camera Nancy Pelosi a Taiwan nell’agosto 2022. Secondo il New York Times, da allora oltre 100mila migranti cinesi residenti negli Stati Uniti sono stati sottoposti a ordini di espulsione definitivi. Il recente ritorno di 250 persone rappresenta quindi una goccia nel mare. “Più una trovata pubblicitaria elettorale che un vero deterrente”, secondo Todd Bensman, ex responsabile dell’intelligence antiterrorismo presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Texas.

L’accordo tuttavia è importante per varie ragioni. Primo, perché rappresenta un altro passo avanti nella normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, compromessi prima dalla visita di Pelosi a Taiwan, poi dall’incidente del “pallone-spia” abbattuto sui cieli americani nel febbraio 2023. E infine ricuciti dal presidente cinese Xi Jinping e l’omologo americano Joe Biden durante il bilaterale dello scorso anno a San Francisco. In secondo luogo, l’intesa si inserisce nel contesto sempre più restrittivo delle politiche statunitensi sugli ingressi dalla Cina, anche quelli legali ma considerati rischiosi per la sicurezza nazionale. Terzo: segnala un cambio di approccio da parte delle autorità cinesi.

Amministrazione dopo amministrazione, gli Stati Uniti hanno continuato ad accusare Pechino di scarsa ricettività sulla questione dei rimpatri. Il governo cinese, da parte sua, ha sempre detto di accogliere solo coloro “di cui è stata verificata la provenienza dalla Cina continentale”. Cosa non semplice considerato che spesso chi fugge all’estero distrugge i propri documenti proprio per evitare di essere rispedito indietro. Ma non è un mistero che il vero motivo di tanta resistenza vada attribuito al “fastidio” di Pechino per le leggi americane che – a suo dire – proteggono dissidenti e oppositori politici. Da parecchi anni la Repubblica Popolare è la prima fonte di domande di asilo negli States, pari a circa il 13% del totale. Un po’ per via della popolosità del Paese, un po’ per via (in passato) della politica del figlio unico che, favorendo aborti forzati e infanticidi – secondo Axios – è stata fino all’abolizione nel 2016 un argomento convincente dei richiedenti asilo cinesi.

Cosa ha convinto Pechino a cambiare approccio? Mentre il governo cinese non gradisce il ritorno di elementi sovversivi e potenzialmente destabilizzanti, allo stesso tempo negli ultimi anni si è trovato a dover accontentare Washington in cambio del sostegno nella cosiddetta “caccia alle volpi”: i super-corrotti fuggiti all’estero col malloppo su cui la Cina vuole rimettere le mani. Molti si trovano proprio negli States, che non hanno mai accettato di siglare accordi di estradizione con la Repubblica Popolare temendo per l’incolumità di dissidenti e oppositori politici. Nel 2022, commentando l’interruzione della collaborazione sui rimpatri, l’ong Safeguard Defenders faceva notare come Pechino ricorra alla “cooperazione giudiziaria internazionale selettiva con lo stesso obiettivo di forzare il ritorno di obiettivi politicamente sensibili”. Ma c’è dell’altro. Se un tempo il rimpatrio degli immigrati economici rappresentava una “scocciatura”, ora riportarli a casa è diventata una questione di reputazione internazionale. Da quando la Cina ha iniziato ad allentare i rigidi controlli anti-Covid nel dicembre 2022, oltre 56mila cinesi sono stati fermati lungo il confine tra Stati Uniti e Messico. La maggioranza cercava un lavoro e libertà civili, requisiti sempre più rari in Cina. Molti (25mila nel solo 2023) lassù ci sono arrivati seguendo il Darien Gap, una delle rotte migratorie più pericolose al mondo che collega la Colombia a Panama attraverso 5mila chilometri quadrati di giungla. Comprensibile l’imbarazzo di Xi asceso al potere dieci anni fa promettendo ai cittadini di realizzare il “sogno cinese”.

Dal canto suo, con l’approssimarsi del voto, Biden si è affrettato ad assicurare che l’American Dream sia un privilegio esclusivo degli elettori. A giugno, l’inquilino della Casa Bianca ha firmato un ordine esecutivo che prevede un tetto di 2.500 richieste di asilo al giorno, oltre le quali la frontiera verrà blindata e i migranti senza documenti di ingresso saranno rispediti oltre il confine con il Messico. La stretta – coordinata con Panama – mira a disinnescare un tema potenzialmente letale per i democratici, accusati dai repubblicani di non aver saputo gestire il fenomeno. L’effetto è stato immediato: solo 124 cinesi hanno attraversato il Darien Gap a settembre, circa un decimo rispetto a giugno. Complice la progressiva chiusura normativa dell’Ecuador, Paese che per anni ha mantenuto politiche sui visti molto generose diventando il punto di partenza per l’impervia rotta verso nord.

Ora la palla passa al prossimo inquilino della Casa Bianca. Sia Kamala Harris che Donald Trump hanno promesso tolleranza zero nei confronti dei clandestini. Ma se a vincere sarà il candidato repubblicano, la collaborazione sui rimpatri non è escluso verrà nuovamente sacrificata come arma negoziale. Stavolta magari nel palleggio commerciale con Pechino.

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