Ottobre si è chiuso con il Parlamento europeo vestito con i colori del Venezuela, non però quelli che rappresentano il regime di Nicolás Maduro, ma quelli di Edmundo González Urrutia e María Corina Machado. Il presidente eletto del Venezuela nei comizi del 28 luglio scorso (secondo gli atti mostrati dall’opposizione) e la leader del partito Vente Venezuela (e vera anima del Paese che vuole un cambiamento) sono stati infatti insigniti con il premio Sacharov 2024. Riconoscimento destinato a chi lotta per la difesa e promozione dei diritti umani, in special modo per la libertà di pensiero e di espressione.
Edmundo e Maria Corina “lottano per ripristinare la libertà e la democrazia nonostante le ingiustizie”, le parole della maltese Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, durante l’emotiva cerimonia.
Nello stesso momento a circa 3000 km di distanza (nella cittadina russa di Kazán sulle rive del Volga), Maduro stringeva la mano di Putin, nel contesto della XVI riunione dei Brics (22-24 ottobre), in quello che è stato il suo primo viaggio internazionale dopo i fatti di luglio. Putin aveva già espresso il suo sostegno al dittatore venezuelano per il suo terzo mandato consecutivo, dopo le contestate elezioni estive, anche senza la pubblicazione degli atti ufficiali. Non un summit minore, quello dei Brics, che ha riunito le delegazioni di 36 paesi e che ha visto anche la partecipazione (non senza polemiche) del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.
Uno spazio “amico” che ha permesso a Maduro di “potabilizzare” la sua immagine nel contesto internazionale e provare a distendere relazioni con paesi come il Brasile, che si negano a riconoscere la sua vittoria senza la conferma degli atti elettorali. I Brics potrebbero (e già sono stati) il salvagente del caudillo venezolano che ha completato negli ultimi mesi il passaggio da “democratura” a dittatura, aumentando in modo esponenziale la massiva e sistematica violazione dei diritti umani in un’ondata repressiva senza precedenti.
Sì, perché il gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che in realtà dopo il summit di Johannesburg del 2023 si chiama ufficialmente Brics+ (oggi include anche Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Iran) è un orizzonte necessario per il governo bolivariano, mantenuto a distanza anche dalla maggior parte dei governi di sinistra della regione latinoamericana e che osserva con impazienza il risultato delle elezioni Usa.
Il Venezuela ha richiesto ufficialmente di essere ammesso nel gruppo dei Brics+ già nel 2023, ma il veto del Brasile per il momento ha messo la situazione in stallo. Nel frattempo l’invito per un ingresso nel gruppo di Paesi che mirano a controbilanciare il peso del blocco occidentale era stato offerto all’Argentina di Milei, che però ha rifiutato. Rimarrebbe quindi “un posto libero” per un paese latinoamericano, posto che però “fa gola” anche alla Bolivia di Arce (al bordo di una guerra civile) e alla Colombia di Gustavo Petro.
Veto del Brasile a parte (sul quale Maduro ha chiesto ufficialmente spiegazioni a Lula) il caudillo venezuelano ha inoltre approfittato per ricordare a chi continua a sanzionare in modo unilaterale l’economia del paese sudamericano che Caracas dispone delle maggiori riserve di petrolio al mondo e della quarta riserva di gas, oltre alle risorse presenti (e ancora non completamente contabilizzate) nel chiamato Arco Minerario del fiume Orinoco. Un monito che serve per valorizzare il suo ruolo a livello internazionale, sottolineando come il Venezuela sia un attore chiave nella sempre più intricata agenda energetica globale.
In questo intricato scenario il prossimo grande appuntamento sarà per il 10 gennaio 2025, giorno previsto per il giuramento del nuovo presidente nazionale del Venezuela, che guiderà lo Stato fino al 2031. Entrambi, Maduro e González Urrutia, hanno dichiarato che il 10 gennaio presteranno giuramento davanti all’Assemblea Nazionale (AN) ma mentre per il primo si tratta solo di una formalità di fronte ad una AN bolivariana, per il secondo la questione è ben più complicata. In una intervista alla Cnn, Edmundo González Urrutia (che è arrivato a Madrid l’8 settembre scorso e che si trova in Spagna con asilo politico) ha spiegato riguardo al 10 gennaio e alla possibilità di prestare giuramento in esilio che “non è uno scenario che ho preso in considerazione in questo momento. Il mio giuramento avverrà davanti all’Assemblea Nazionale del Venezuela”.
Nonostante le sue dichiarazioni e i buoni propositi, sembra però molto difficile impedire che Maduro assuma di nuovo il potere a gennaio, giacché conta (per il momento) sul reale e effettivo potere del controllo del territorio venezuelano, così come delle istituzioni.
Nel frattempo, l’Onu ha rinnovato per un periodo di due anni il mandato della Missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Venezuela (FFM), oltre al mandato dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani per monitorare e riferire sulla situazione. La stessa commissione che era stata lapidaria il 17 settembre nel denunciare le violazioni dei diritti umani del regime di Maduro, report poi ampliato con un ulteriore documento del 15 ottobre che non lascia alcun dubbio sui crimini commessi nel seno di questa dittatura caraibica.
Sappiamo però (tristemente) che la realpolitik non si basa sui diritti umani (come vediamo in diversi scenari a livello mondiale) e pertanto nonostante le continue denunce della Commissione Interamericana dei Diritti Umani, dell’ Organizzazione degli Stati Americani, dell’Onu, di ong come Amnesty International e Human Rights Watch, di ex membri del regime come Luisa Marvelia Ortega Díaz, non saranno gli orribili crimini dei quali si è macchiato ad impedire a Maduro di assumere il suo terzo mandato il 10 gennaio.