Viene dalla mia terra la notizia, riportata da tutti i media nazionali, riguardante una ragazza di origini marocchine che ha riferito di essere stata picchiata, vessata e intimidita da coetanee, anch’esse originarie del Marocco, dopo aver condiviso con loro la volontà di fare a meno del velo. Non è ancora chiara l’origine della miccia capace di innescare l’aggressione a seguito della quale è stata sporta denuncia per lesioni. Se i fatti fossero confermati, saremmo in presenza di un elemento nuovo relativo alla drammatica questione della violenza verso le donne: donne che odiano altre donne.

Difficile pensare che le ‘amiche’ che avrebbero bullizzato la malcapitata siano state mosse dal desiderio di una applicazione pedissequa e distorta di presunti precetti religiosi come fa la polizia morale in Iran. Le ragazzine che avrebbero “afferrato la 15enne per i capelli davanti a scuola, spingendola a terra, spintonandola e schiaffeggiandola, causandole lesioni” apostrofandola come poco di buono a causa del suo desiderio di svelarsi (decisione avallata dalla famiglia), più probabilmente si sarebbero mosse nell’intento di neutralizzare una fonte per loro portatrice di angoscia insopportabile: la libertà dell’espressione del corpo femminile, una libertà capace di esercitare un effetto dirompente su chi ne fa a meno, forse temendola. Una libertà che siamo abituati a vedere perseguitata, zittita, calpestata ed azzerata solitamente dal mondo maschile solito a paludare dietro un paravento confessionale ataviche paure mosse dalla donna, dalle quali conseguono azioni violente tese a colpirla, nasconderla, velarla, ucciderla.

O, come nel caso della studentessa di Teheran che si spoglia per protestare contro le accuse di aver mal indossato lo hijab, segregarla psichiatricamente.

In nome di cosa queste ‘amiche’ se la sono presa con la vittima? A quale ordine superiore avrebbero fatto appello? A un sistema simbolico prettamente padronale, maschile. Avrebbero agito mettendo a lato la propria soggettività determinandosi ‘esso stesso come oggetto’ prono al volere dell’Altro, per dirla con Lacan.

Chi come me studia i fenomeni settari sa che, nel momento in cui alcuni individui che sono entrati nella setta realizzano lo stato di soggezione e prigione mentale nella quale si trovano perché sottoposti alle angherie del guru di turno, iniziando a mostrare indizi di ribellione, sono contrastati da altri soggetti anch’essi sottomessi ai voleri del capo setta, che ne ostacolano le mosse per riconquistare la libertà. Quando in 1984 Winston iniziò la sua ribellione al controllo totale che il Grande Fratello aveva sui cittadini, temeva più di ogni altra cosa le delazioni e gli atti di spionaggio di altri cittadini prigionieri come lui, anch’essi privi di libertà, ma totalmente assuefatti ad un senso di devozione e obbedienza che li rendeva oggetti del suo volere.

Siamo, dunque, in presenza di una tremenda torsione che vede alcune ragazze imbevute di un senso di sudditanza tale da dare per assodato e indiscutibile lo stato di oggetto nelle mani di un padrone, anche quando questo non c’è. Portavoci di una volontà di oscuramento della femminilità da esse interiorizzata. Giovani donne per le quali la libertà di esprimersi attraverso l’abbigliamento e il corpo costituisce un elemento indicibile, sconosciuto, angosciante al punto da dovere perseguitare una coetanea che, libera da schemi e preconcetti, si comporta e vive da donna libera.

La speranza (debole, in verità)? E’ quella di trovare disconferma al movente della denuncia della povera ragazza vessata, per scoprire che l’origine del pestaggio sia altrove. Il che non renderebbe certo meno grave l’azione delle accusate ma, quantomeno, eviterebbe alla società di dover fare i conti con un elemento nuovo: donne giovani che odiano le loro simili perché libere. Un drammatico arretramento collettivo della faticosa e lunga battaglia contro tutto quell’universo opaco che fa della guerra al femminile la cifra del suo essere.

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