Questa notte, tutto il mondo (chi ha potuto) ha assistito con grande interesse alle elezioni americane, per le ovvie ricadute locali nell’era della globalizzazione. Ma per un Paese in particolare il risultato elettorale americano era una questione di vita o di morte: l’Ucraina.

Attaccando con Kiev l’“ordine globale” vigente, Putin aveva scommesso – più che sulle sue armate – sulla scarsa volontà dell’Occidente di difendere i principi su cui esso stesso si fonda. Codificati – dopo la Seconda guerra mondiale – a Norimberga, nella dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, nel diritto penale internazionale, nelle istituzioni delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Wto, dell’Ocse e di altri organismi di cooperazione internazionale. Principi, peraltro, spesso violati dai repubblicani americani (Bush jr. in Iraq, ecc).

Con il successo di Trump, Putin ha vinto la sua prima scommessa: a fine gennaio gli Stati Uniti verosimilmente ritireranno il loro sostegno economico e militare all’Ucraina invasa, colpita, torturata ma finora solo in parte sottomessa.

Biden si è premurato di lasciare in eredità agli ucraini un po’ di soldi e di armi. Ma l’ascesa a Washington di un fervente ammiratore di Putin si farà sentire subito al fronte, attraverso il meccanismo potente delle aspettative. La prevista interruzione degli aiuti, infatti, potrebbe facilmente demoralizzare gli ucraini, determinandone il rapido crollo. È già successo in Afghanistan pochi anni fa, quando la notizia di un futuro disimpegno americano determinò il rapido crollo dell’esercito alleato locale e, a seguire, la fuga ignominiosa degli americani.

Se dunque l’Europa volesse salvare Kiev dovrebbe agire immediatamente, proponendosi in modo credibile al posto degli americani. I quali però non offrivano agli ucraini solo soldi e armi, ma anche un ombrello nucleare basato sulla deterrenza. E questa, contrariamente al flusso di armi e soldi, cesserà improvvisamente il prossimo 20 gennaio, con il passaggio delle consegne da Biden a Trump.

L’Europa avrebbe dunque di fronte un compito estremamente arduo e urgente, che richiederebbe di fare in due mesi quei progressi che per decenni sono mancati, sul coordinamento delle politiche estere e di difesa e sulla messa in comune della sovranità. O almeno, occorrerebbero fantasia e leadership per creare meccanismi istituzionali provvisori/straordinari ma funzionali.

Ma perché mai l’Unione europea dovrebbe difendere l’Ucraina? Le categorie geopolitiche non chiariscono la questione. Come dice Putin, la guerra (mondiale) è fra i sostenitori del vecchio ordine globale (liberale) e i sostenitori del nuovo ordine globale (autoritario). La profonda divisione dell’elettorato americano dimostra che la faglia fra i liberali e gli autoritari attraversa tutte le nazioni. Questa faglia (come altre) in caso di scontro paralizza ed espone le democrazie (per questo Putin le ritiene decadenti), condannando i regimi liberali alla sconfitta.

L’alternativa è una vergognosa resa dell’Europa in Ucraina. Rinunciando a sostenere la parte combattente del movimento liberaldemocratico internazionale, l’Europa invierebbe un chiaro segnale a dei pericolosi clienti: di essere disposta a sottomettersi. E tuttavia, è questa la soluzione di gran lunga più probabile, in base ai vincoli politici correnti e alla storia di promesse occidentali non mantenute degli ultimi secoli – dalle rivoluzioni del 1848 al tradimento della Cecoslovacchia nel 1938, alla ‘drole de guerre’ nel settembre 1939.

La vittoria di Trump accelera la crisi delle democrazie, acutamente percepita da Putin nel suo ormai famoso articolo di geopolitica del 2021 (del quale l’ambasciata russa due settimane fa pubblicizzava una traduzione in italiano). Oggi come allora la politica ‘piccola’ ha tutto l’interesse ad alimentare l’illusione che la pace e la libertà possono essere conservate a buon mercato: il risveglio è quasi sempre duro.

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