The Donald is back. Era nell’aria da settimane, anche se buona parte degli addetti ai lavori era rimasta possibilista sulle chance della Harris, forse più per esorcizzare un risultato temuto da molti. I riflessi dell’elezione di Trump sull’auto americana e su quella mondiale, nondimeno, vanno soppesati con cura. Perché non c’è dubbio che gli orientamenti degli Stati Uniti tenderanno a influenzare in primis l’Europa, ma per certi versi anche la Cina, che si sta affermando come l’altro grande colosso delle quattro ruote, con una sensibilità particolare (e commerciale, aggiungeremmo) per le tecnologie verdi.

Cominciamo proprio dalla sostenibilità. Trump ha sempre indicato come punto di forza degli Usa l’ampia disponibilità di petrolio per alimentare le vetture con motorizzazioni tradizionali, ma soprattutto non ha mai amato l’auto elettrica: all’ultima Convention nazionale repubblicana aveva definito i veicoli a batteria e i soldi spesi per le infrastrutture a loro dedicate una nuova “truffa verde”. Ad agosto, poi, aveva dichiarato che, in caso di elezione, avrebbe considerato la possibilità di abolire il credito d’imposta di 7.500 dollari per l’acquisto di veicoli elettrici, uno degli incentivi previsti dall’Inflation Reduction Act.

Posizioni che hanno allarmato il comparto automotive americano, alle prese con una transizione energetica complicata (più di quella europea) ed investimenti senza prospettive immediate di ritorni economici. Non è un caso che proprio quegli investimenti siano stati congelati in attesa dei risultati elettorali e ora, visto com’è andata, potrebbero essere dirottati in senso opposto.

Tutto deciso, allora? Niente affatto. Perché c’è da considerare il peso del fattore “T”, come Tesla. O meglio “EM”, come Elon Musk. L’uomo più ricco del mondo, nonché patron dell’azienda californiana produttrice di auto elettriche, è un accanito sostenitore del neo presidente, la cui campagna elettorale ha finanziato con generosità: parliamo di circa 130 milioni di dollari, di cui 75 solo negli ultimi tre mesi. Certo una goccia del mare rispetto ai proventi miliardari dei contratti che le sue aziende (come SpaceX) hanno stipulato con il governo, ma una spinta sostanziosa (e decisiva) per l’ottenimento del mandato popolare.

Come riuscirà Trump a superare il conflitto d’interessi? A far convivere l’avversità per l’elettrone con l’amicizia per il suo sostenitore più convinto? Innanzitutto tranquillizzandolo: “Sono a favore delle auto elettriche, devo farlo perché Elon Musk mi ha appoggiato con forza. Quindi, non ho scelta”, ha dichiarato in campagna elettorale. Aggiungendo proprio stamattina, a giochi fatti, un pubblico ringraziamento: “Elon è un uomo straordinario, un supergenio. Siamo stati insieme questa notte, ha passato due settimane a Philadelphia e in diverse parti della Pennsylvania, facendo campagna per me”. Parole al miele, che preludono pure a un futuro incarico nell’esecutivo che andrà a formarsi. A settembre Trump aveva infatti promesso di creare un comitato per l’efficienza del governo guidato da Musk, il quale aveva risposto con l’auspicio di utilizzare il ruolo di consulente per tagliare 2.000 miliardi di dollari dal bilancio federale, ovvero una riduzione del 30% rispetto al 2024, e per spingere sulla regolamentazione della guida autonoma. E in secondo luogo, forse, ricorrendo a una narrativa già in voga negli States: un’auto Tesla si vende prima perché è “cool”, e solo dopo perché è elettrica. Un po’ come avere un iPhone, insomma.

Allargando l’analisi agli orientamenti politici, poi, l’elezione di Trump non sembra una buona notizia per l’industria europea, che potrebbe pagare il prezzo di una nuova linea protezionistica a stelle strisce. Più volte in questi mesi il tycoon ha espresso la volontà di introdurre pesanti dazi per le vetture prodotte nel vecchio continente (ma anche in Cina e Giappone) e importate al di là dell’Atlantico, esprimendo al contempo sdegno per i costruttori americani che fabbricano i loro veicoli all’estero.

L’ultimo attacco all’Europa dell’automobile è arrivato proprio ieri, poco prima dell’apertura dei seggi: “Ci stanno fregando, ci rifilano le loro auto e non comprano le nostre. Ogni Paese del mondo ci sta fregando, compresi i cosiddetti Paesi amici. Anzi, i Paesi amici per molti aspetti sono molto peggio, sicuramente per quanto riguarda il commercio”. L’Europa? “Quando si tratta di scambi commerciali sono dei veri delinquenti. Non comprano le nostre auto, ma in compenso ci danno le loro Mercedes, le loro BMW, le loro Volkswagen. Milioni e milioni di auto. Metterò fine a tutto questo”. In sostanza, la minaccia di una politica basata su tariffe “punitive” per i veicoli prodotti all’estero che rischia di aggravare ulteriormente le condizioni in cui versa la nostra industria delle quattro ruote.

Una retorica condita pure da qualche falso storico, utile alla causa elettorale, come quello sull’assenza di vetture americane in Germania: “Due o tre anni fa, ho detto ad Angela Merkel: ‘Quante Chevrolet avete a Berlino?’, e lei mi ha risposto ‘non credo che ce ne siano’. Così le ho detto: ‘Hai ragione. Pensi che sia giusto?’ Ci stanno fregando, tutto il mondo ci sta fregando”. Mezze verità, perché era stata la stessa General Motors, che detiene il marchio Chevrolet, a ritirarsi dall’Europa per meglio concentrarsi sul mercato nordamericano. Mentre costruttori come Ford, nonostante le difficoltà che il settore automotive sta vivendo, continuano a fare affari anche al di qua dell’Atlantico. Senza dimenticare che, ad esempio, la sede centrale di Ford Europe si trova proprio in Germania.

Tuttavia, nel mirino del 47° Presidente americano ci sono pure le auto cinesi prodotte in Messico, come Trump ha fatto intendere qualche settimana fa, durante uno dei suoi numerosi comizi elettorali: “Proprio ora state costruendo in Messico dei grandi, mostruosi impianti di produzione e cosa pensate di ottenere? Volete vendere auto da noi e non assumere lavoratori americani, ma non ci riuscirete. Metteremo una tariffa del 100% su ogni auto che supera il confine”. Parole di fuoco specie considerando che l’USMCA, ovvero il patto commerciale che stabilisce come i veicoli e la componentistica possano circolare senza tariffe attraverso le frontiere di Usa, Canada e per l’appunto Messico, deve essere confermato per iscritto entro il 1° luglio 2026, pena la sua decadenza. L’ennesima grana all’orizzonte.

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