Negli Usa, come disse Du Bois, c’è un sistema a partito unico, ma “con due nomi”. Ha vinto quello chiamato repubblicano.

Non è solo la vittoria di Trump, ma del “Trumpismo”. Che non è un incidente di percorso. È un movimento reazionario per eccellenza, perché vuole riportare indietro la ruota della storia. Non ne fa mistero, a partire dal suo chiaro slogan “Make America Great Again”. Il Trumpismo non è riducibile solo a Trump e non è fenomeno strettamente statunitense. Il ritorno al potere politico nel Paese egemone significa che si potrà propagare nel resto del mondo. È la potenza egemone a dettare agenda, metodi, linguaggi.

Il vero ticket presidenziale è stato Trump-Musk, perfetta fusione di potere politico-economico-mediatico. L’ex Twitter, oggi X, non è solo spazio di propaganda, ma di costruzione di comunità, che si nutrono di “fatti alternativi”, fake news che non sono recepite come bugie. È un cambio di paradigma comunicativo con cui fare i conti. I media – anche social – sono terreno chiave di disputa.

The economy, stupid!

1. Andiamo al sodo, alle condizioni materiali delle masse. Sotto Biden i salari sono cresciuti del 18,5%, meno che il tasso di inflazione, pari al 20,6%. Non è un caso se il 72% degli intervistati di un recente sondaggio affermava che l’inflazione stesse crescendo (è in calo, stando ai dati) e il 56% che l’economia Usa fosse in recessione (i dati dicono il contrario). C’è chi per spiegare il “disallineamento” tira in ballo la psicologia. La realtà è che i cittadini sono consapevoli di ciò che gli indici ufficiali ignorano: per dire, l’inflazione non considera i costi di assicurazioni (auto, salute, ecc.) e rate dei mutui, che hanno raggiunto i livelli più alti da inizio del secolo.

2. Il tutto mentre le grandi imprese S&P 500 continuano a banchettare: +64,5%. Non solo i lavoratori sono diventati più poveri in termini assoluti, ma anche relativi: si è allargata la forbice tra ricchi e poveri, le diseguaglianze schizzate. Sotto un governo della “sinistra”.

3. E l’occupazione? Harris – come Meloni – poteva vantare un boom. Non è servito e non si è sentito al voto. Anche perché la maggior parte dei nuovi lavori è part-time o nel settore dei servizi pubblici che, rispetto a posti full time nei principali settori produttivi, pagano meno e offrono scarse prospettive di avanzamento di carriera e stipendio. Non per caso sempre più persone sono costrette a fare più di un lavoro.

La vittoria di Trump non è una buona notizia per la classe lavoratrice. Tanto a destra quanto in certa “sinistra” si dipinge Trump come paladino della working class. Nulla di più falso. Per l’Institute on Taxation and Economic Policy, se Trump realizzerà quanto promesso in politica fiscale, a beneficiarne sarà il 5% più ricco della popolazione (tagli fino a 36.320$ l’anno per l’1% più ricco); per il 20% più povero, al contrario, si prospettano tasse più alte di un 4,8%. Le componenti più fragili della classe lavoratrice, stranieri e donne in primis, saranno oggetto di attacchi violenti e costanti.

L’attacco alla classe lavoratrice non è solo “materiale”, ma anche politico. La strategia di Trump (e dell’ultradestra) è dividere su linee etniche o di genere, minando una risorsa fondamentale della classe lavoratrice: unità e compattezza. Continuerà ad attaccare l’organizzazione dei lavoratori in sindacati (scesa a un misero 10%, ma con settori che mostrano un’inversione di tendenza), per impedir loro di costruire potere sul posto di lavoro. In perfetta sintonia con tutti i suoi amici miliardari (Musk, Bezos, ecc.).

Se abbracci battaglie economiche popolari puoi vincere. In Missouri Trump trionfa con 20 punti di distacco su Harris (58,5% vs. 40,1%) e i Repubblicani vincono al Senato e per il Governatore. Nello stesso giorno, però, il 57,6% degli elettori approvano pure l’innalzamento del salario minimo (dai 12,30$ attuali ai 13,75$ nel 2025 e poi 15$ nel 2026) e l’introduzione della malattia pagata per 700mila lavoratori che oggi non ne hanno diritto. Battaglie materiali concrete.

Non basta non essere Donald Trump per vincere le elezioni. Lezione utile anche qui da noi. Harris ha impostato tutta la campagna come un Pd qualsiasi. L’unico messaggio è stato: “votate me perché non sono Trump”. A chi chiede un lavoro stabile e un salario dignitoso, non si può rispondere “Trump è peggio”. A chi chiede lo stop al genocidio israeliano non si può rispondere “Trump è peggio”.

Il “menopeggismo” funziona sempre meno, anche negli Usa. Anziché offrire lo stesso dell’ultradestra, solo in dosi minori e col sorriso anziché con la faccia cattiva, serve un progetto di trasformazione. “La tachipirina 500 se ne prendi due diventa 1000”, ma sempre paracetamolo è. Mezza dose di neoliberismo non è troppo diversa da una intera.

Se la scelta è solo sul sostegno a differenti sfumature di genocidio israeliano in Palestina, non ti puoi stupire se settori giovanili che si sono attivati per fermarlo, comunità arabe e musulmane non votano per la vice di “Genocide Joe”, ma per “More Genocide Trump”.

Per una politica della trasformazione, la sfida è rompere la gabbia del bipartitismo/bipolarismo. Secondo Gallup, il 63% degli statunitensi crede che il partito unico Usa stia facendo un così brutto lavoro che sarebbe necessario un terzo partito. Dal 2003 la percentuale aumenta con costanza. Ma non si traduce in voti. Tuttavia, nella consapevolezza che serva costruire potere innanzitutto fuori dalle istituzioni, un “terzo partito” serve come strumento di resistenza alla propaganda del bipolarismo neoliberista, di rifiuto del duopolio e di un possibile risveglio politico.

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