“Non inizierò guerre, ma le fermerò”. Donald Trump promette la pace, ma la strategia per raggiungerla è ancora ignota e solleva timori in Ucraina, in Palestina e anche in Unione europea. Le reazioni che arrivano da questi tre angoli del mondo raccontano di un’ostentata tranquillità che nasconde preoccupazione perché, ad oggi, di doman non v’è […]
“Non inizierò guerre, ma le fermerò”. Donald Trump promette la pace, ma la strategia per raggiungerla è ancora ignota e solleva timori in Ucraina, in Palestina e anche in Unione europea. Le reazioni che arrivano da questi tre angoli del mondo raccontano di un’ostentata tranquillità che nasconde preoccupazione perché, ad oggi, di doman non v’è certezza. “Mi congratulo con Donald Trump per aver vinto le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Mentre affrontiamo urgenti sfide globali, Europa e America sono più forti quando sono unite. Non vedo l’ora di lavorare con lui e il suo team”, ha scritto su X l’Alta rappresentante designata per la politica estera Ue, Kaja Kallas. “Siamo convinti che gli Usa, come l’Ue, abbiano un interesse fondamentale nell’avere un’Ucraina forte e sovrana”, sottolinea il portavoce capo della Commissione Eric Mamer. “Trump sosterrà le ambizioni dei palestinesi”, commenta il presidente dell’Anp, Abu Mazen, mentre è più freddo il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che si congratula convinto che il tycoon “aiuterà l’Ucraina ad ottenere una pace giusta”.
Il disimpegno sull’Ucraina può inguaiare Bruxelles
A Bruxelles non si può dire, ma anche tra coloro che in passato non disdegnavano le politiche e gli atteggiamenti di Donald Trump c’è preoccupazione per quelle che saranno le sue posizioni sul dossier ucraino e non solo. Durante la sua campagna elettorale, il candidato repubblicano ha ripetuto più volte che con lui la guerra non sarebbe mai esplosa e che, se eletto, avrebbe messo fine al conflitto “in un solo giorno“. È chiaro che si tratta di alcune delle sue tante sparate. Nemmeno lui può permettersi di gettare la credibilità internazionale degli States con una fuga senza intese, ma già nel suo primo mandato Trump ha dimostrato di volere un’America più concentrata su se stessa, disimpegnata dai fronti caldi del mondo, più concentrata sulla competizione commerciale con Pechino e sull’area Indo-Pacifica che sullo scontro con la Federazione russa o in Medio Oriente.
C’è però un problema, guardandola almeno dal punto di vista di Bruxelles: gran parte della campagna elettorale di Ursula von der Leyen si è concentrata sullo sviluppo del settore della Difesa, sul rafforzamento della sicurezza dell’Europa e sul sostegno incondizionato a Kiev. Un whatever it takes di draghiana memoria che, però, era sostenibile fin quando a supportare l’esercito di Volodymyr Zelensky c’era soprattutto il gigante americano con decine di miliardi spesi in armi e sostegno economico. Se questo venisse, anche gradualmente, a mancare, l’Europa si ritroverebbe di fronte a un bivio: mollare la presa e spingere Zelensky al tavolo negoziale, tradendo le promesse fatte nei mesi scorsi agli elettori, oppure farsi carico per intero del sostegno a Kiev. Un’opzione, la seconda, che prevede un impegno economico e di risorse che l’Ue potrebbe non essere in grado di sostenere.
Non è casuale, quindi, che proprio mentre i risultati americani diventavano sempre più chiari, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, e il presidente francese, Emmanuel Macron, si siano sentiti per rinsaldare il legame franco-tedesco e stabilire una linea comune da far passare in tutta l’Europa: “L’Ue deve essere coesa e agire in modo strettamente coordinato. Mi sono consultato oggi con il presidente francese Macron e domani ci vedremo con gli altri capi di Stato e governo a Budapest – ha detto il leader di Berlino – Ci coordineremo e continueremo a farlo nelle settimane successive. Tutti i Paesi Ue hanno assunto più responsabilità per la sicurezza dell’Europa, il sostegno all’Ucraina e l’indipendenza dell’Europa nella questione economica ed energetica. Sono tutti temi in cui Europa e Stati Uniti hanno interessi in comune e su questo si deve continuare a lavorare”.
La prudenza nelle dichiarazioni, quindi, è d’obbligo: Donald Trump, ha detto il portavoce per gli Affari Esteri, Peter Stano, “entrerà in carica solo l’anno prossimo. La posizione dell’Ue rimane invariata, è delineata nelle conclusioni del Consiglio europeo. L’Ue e i suoi Stati membri continuano ad essere determinati a sostenere l’Ucraina e continueranno a sostenere l’Ucraina nei suoi sforzi per ripristinare la sua indipendenza e integrità territoriale”. Più realistiche, se si esclude una uscita di scena europea dalla guerra in Ucraina, le dichiarazioni del presidente lettone, Edgars Rinkevics: “Dopo queste elezioni è chiaro che l’Europa dovrà investire di più nella Difesa. Gli Stati Uniti insisteranno sul fatto che l’Europa faccia di più per la sua difesa e il suo sostegno all’Ucraina”.
Mosca fiduciosa, ma respinge gli entusiasmi
Se si sta alle indiscrezioni uscite sul Financial Times riguardo alla presunta exit strategy del tycoon dalla guerra in Ucraina, gli unici che possono essere felici per le prospettive future sembrano essere proprio i russi: zone autonome e smilitarizzate su entrambi i lati del confine, no all’entrata di Kiev nella Nato, Paesi Ue che devono assumere il ruolo di garanti del processo di pace, mentre la partecipazione degli Stati Uniti e della Nato sarà minima. Non spetterà agli Usa, inoltre, assumersi l’onere finanziario del mantenimento della pace, bensì ai Paesi dell’Ue, con Washington che non sarà disponibile nemmeno a partecipare a eventuali operazioni di peacekeeping.
Una pace così potrebbe anche andare bene a Vladimir Putin, nonostante le sue truppe siano nel bel mezzo di un’avanzata record nel Donetsk. Anche per questo il suo portavoce, Dmitry Peskov, si è detto convinto che gli Stati Uniti di Trump “potranno contribuire a porre fine al conflitto in Ucraina”, specificando comunque che “questo non potrà essere fatto dall’oggi al domani”. Inutile nascondersi: il sostegno americano all’Ucraina è ciò che ha permesso all’esercito di Kiev di resistere così a lungo alla pressione delle Forze Armate russe. “Sono gli Stati Uniti a stimolare e gettare benzina senza sosta sul conflitto, ne sono direttamente coinvolti – aggiunge – Gli Stati Uniti possono cambiare la rotta della loro politica estera”. Il Cremlino, ha poi concluso, si dice aperto al dialogo e aspetta di vedere quello che accadrà al suo insediamento a gennaio. Per il momento, Putin non ha in programma di congratularsi con Trump a breve: “Non dimentichiamoci che stiamo parlando di un Paese non amico che è coinvolto direttamente e indirettamente in una guerra contro il nostro Stato”.
Fronte mediorientale: è festa nel governo israeliano
Chi può star certo del pieno sostegno da parte di Washington è invece Benjamin Netanyahu. L’appoggio della Casa Bianca sotto l’amministrazione Biden, va detto, non è mai venuto meno, ma i rapporti si sono deteriorati sensibilmente dall’inizio della campagna militare a Gaza e un nuovo mandato democratico avrebbe potuto mettere dei paletti più netti all’alleato. Non sarà così, almeno stando ai precedenti, con il repubblicano. Più volte il magnate ha ribadito di essere pronto a offrire pieno sostegno a Israele nella guerra contro i suoi avversari locali e regionali. Inoltre, nella sua precedente esperienza alla guida del Paese le sue politiche si sono caratterizzate per un incondizionato appoggio al governo e alle sue politiche nei confronti dei palestinesi, anche con iniziative che hanno fatto innalzare la tensione, come ad esempio il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme e l’aver dichiarato che la Città Santa è la vera capitale di Israele.
Mosse che avevano come obiettivo principale quello di ricacciare l’Iran e tutti i suoi alleati in un isolamento dal quale Barack Obama aveva cercato di farli uscire. Così è nato l’appoggio incondizionato a Tel Aviv, senza mai ostacolare nemmeno le approvazioni sulle colonie illegali, così sono stati possibili anche gli Accordi di Abramo e l’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano. Non devono quindi sorprendere le reazioni entusiaste arrivate dallo Stato ebraico: Netanyahu si è congratulato con Trump per il “più grande ritorno della storia. Una forte ripresa della grande alleanza”, mentre il ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir ha esultato su X con un “Yes” alla notizia della vittoria del repubblicano. Soddisfazione anche da parte del presidente d’Israele, Isaac Herzog, per il “ritorno storico alla Casa Bianca di un caro e vero amico di Israele, un campione di pace e cooperazione nella regione”.
Se Abu Mazen si dice fiducioso che Trump sosterrà “le aspirazioni legittime” dei palestinesi, anche Hezbollah ha commentato sostenendo di sapere che “la politica americana in Medio Oriente a sostegno di Israele non cambierà tra repubblicani e democratici, ma crediamo che Trump avrà più forza di Biden o di Harris per fermare il criminale Netanyahu“. Non basta la forza, però. Serve una volontà. E questa, stando almeno alle premesse, non sembra esserci.