Iniziamo con tre titoli passati recentemente alla Festa del Cinema di Roma. Folgorante questo Flow – Un mondo da salvare, dopo l’incanto iniziato al Festival di Cannes, approda in sala dal 7 novembre. L’opera seconda del regista lettone Gints Zibaldonis ci mette poeticamente in silenzio insieme al suo protagonista, un gattino nero che si ritrova solo e naufrago su una barca abbandonata in un mondo distopico e semi-sommerso dove l’uomo sembra estinto, a parte le vestigia di civiltà decadute. Restano solo animali sperduti in branchi misti, le loro disparità i loro versi, e una musica da cinema che ci culla in un’avventura adatta a qualsiasi età.

Senza parole Flow riesce a parlarci di come riciclare l’aggressività in cooperazione perché su quella barca il piccolo protagonista dovrà affrontare il grande terrore di nuotare quanto quella di cani e altri pericolosi animali. È incoraggiante che un regista europeo lettone, ci mostri una fiaba dove la paura si può trasformare in coraggio e la diversità in gruppo, arrivando a tutte le lingue pur senza sottotitoli. Quest’animazione è anche un trionfo estetico con il suo stile pittorico e la purezza delle immagini che non si dimenticano. È stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI, ma è anche un outsider con buone probabilità di nomination (e non solo) per gli Oscar 2025.

In Hey Joe di Claudio Giovannesi, un veterano americano della Seconda Guerra Mondiale, James Franco, torna a Napoli dopo 25 anni per conoscere il figlio, con il volto di Francesco Di Napoli. Con una relazione combattuta e sempre ben tesa, per una regia poggiata sulle spalle di Franco, Giovannesi acciuffa echi di Cimino girando il suo piccolo Cacciatore tra i vicoli che abbiamo visto recentemente in Nostalgia di Martone, Caracas di D’Amore e La paranza dei bambini dello stesso Giovannesi. Con le dovute distanze e proporzioni dal gigante capolavoro americano, il regista romano costruisce l’epopea di un uomo che attraversa l’oceano per salvare una persona che ama. Un padre e un figlio contro il patrigno boss (Aniello Arena) e una relazione difficile con una giovane accompagnatrice di militari Usa in permesso (Giulia Ercolini), muovendoli tutti sull’affresco di una Napoli popolare e decadente di speranze degli anni 70.

In sala dal 29 novembre, Hey Joe rivela tutta la maturità artistica di James Franco. Compassato, crepuscolare, dolente e sfaccettato in ogni passo, forse alla sua migliore performance.

Dopo i tribolati sacrifici e i dorati riconoscimenti di Apocalipse Now ci ha riprovato a 45 anni di distanza con Megalopolis il Maestro Francis Ford Coppola. 120 milioni di dollari di tasca propria per completarne la lavorazione, il suo sogno distopico di una metropoli futuristica guarda all’impero romano e sta ai capricci creativi di un archistar che potrebbe cambiare il mondo con l’invenzione di un nuovo materiale plasmatico e cangiante. Parla di promesse non mantenute e non mantenibili, del potere visionario e della solitudine del genio, del tradimento sanguinario e della tecnocrazia dilagante attraverso l’arrivismo più narcisistico. Sembra costruire visivamente il suo Brazil Coppola, aggiungendoci tensioni vagamente shakespeariane. Sembra un film concepito negli anni 80-90 perché ne porta lo stile, come se quel futuro fosse immaginato non da uomini del 2020. Fa pensare un po’ al Titus di Julie Taymor ma è difficilissimo acciuffarne il testo perché questo kolossal si muove fuori tempo e fuori dai linguaggi oggi convenzionali, fuori marketing e fuori budget, e in tutto questo magicamente sublime.

Purtroppo affiancare la parola flop a un genio che il cinema non lo ha solo fatto, ma lo è, in un certo qual modo addolora. Si affida al faccione di Adam Driver Coppola, alla sua aplomb dal candore opaco e (magicamente anch’esso) versatile. A volte perfino d’inspiegabile successo in carriera. Non è un film per tutti ma solo per cinefili volenterosi, appassionati e preferibilmente pazienti. Il regista del Padrino non ha avuto la fortuna di coinvolgere Netflix come il suo amico Scorsese, e per questo gli vorremo bene più di prima. Viva Francis Ford Coppola!

Mi sposto un momento dalla sala per dare una sbirciatina in piattaforma al titolo inedito di un cineasta inglese su Mubi. Il regista Steve McQueen si è preso una pausa dal cinema di finzione con questo mastodontico documentario di 4 ore, Occupied City, per il quale ha girato immagini di vita quotidiana nei luoghi di Amsterdam, pubblici e privati, che durante l’occupazione nazista sono stati teatri di quel passato tragico. Guarda la storia dal racconto della Amsterdam degli anni quaranta insieme all’oggi con curiosità antropologica McQueen. Ci mette limpidamente di fronte a presente e passato lasciandoci carta bianca sulla fragilità e la forza del tempo, sul germoglio della vita lì dov’era il letame della storia, sul cambiamento e sulla sinuosità dell’evoluzione. Realizza un lucido resoconto sulla memoria dei luoghi, aiutando la nostra con le parole del libro di sua moglie Bianca Stigter, Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945.

Questo tipo di visione potrebbe diventare format scegliendo romanzi o saggi storici, anche di altre epiche, adagiandole a immagini dell’oggi raccontate in voce da attori e attrici conosciuti. Letteratura, cinema, memoria. Un esercizio della memoria per chi è passato sotto la porta di Brandeburgo a Berlino, o davanti al Colosseo di Roma, o salì a visitare le Twin Towers di New York, o soltanto il Ground Zero, o per chi ha visitato siti archeologici, turistici, che una volta erano luoghi attivi e vitali. McQueen insieme alla Stigter ci regalano un film sulla memoria e le mutazioni sociali dei luoghi utilizzando il nostro sguardo del turista.

Torniamo alla sala e ai presenti bestioni con aspettative da blockbuster. Cinematograficamente edulcorato fin dal 2018, il famelico simbionte Marvel venuto dallo spazio conclude in Venom – The Last Dance il cammino del personaggio di Tom Hardy. Incassando 322 milioni di dollari nel mondo (6,14 milioni di euro da noi) non fa molta fortuna né clamore, ma conclude il suo ciclo di normalizzazione per un supereroe che aveva molto più di quanto è stato messo su grande schermo. Qui ci sono sacrifico e salvezza dei deboli, tanti effetti e spettacolarità vista e stravista da puro intrattenimento, e un grande Hardy abbastanza sprecato in questo universo Sony/Marvel ancora obliquo e poco chiaro.

Chiudo con questo nuovo fenomeno horror diretto da Oz Perkins, figlio del celebre Anthony. Con Longlegs Perkins propone suggestioni tensive in inquadrature simmetriche a soggetto centrale in stile Wes Anderson. Con una flemma da bagno borbonico il suo pathos si diluisce nei tempi lunghi stuzzicando più che altro impazienza per ciò che ancora non succede. Il suo serial killer ha mani pulite e sporca coscienze, ha il volto irriconoscibilmente rivoltante di Nicolas Cage e incarna un Male democratico, orizzontale, oggi potremmo dire quasi social, quindi inafferrabile e di tutti. Forse sta lì il nocciolo concettualmente spaventoso. Un po’ come It follows si basava sulla suspance incollata su volti anonimi, qui si spinge oltre: tra il poliziesco e il sovrannaturale per un’indagine su trent’anni di famiglie sterminate. Forse un film di caratura più generazionale, ma il risultato non è poi così spaventoso poiché tanti sono i cliché, un finale a sorpresa, violento e apertissimo a diverse interpretazioni e un’ora e mezza che tutto sommato intrattengono il giusto. Ma non appassionano né segnano così tanto quanto pubblicizzato.

#Peace

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