di Paolo
Le elezioni americane da sempre mi coinvolgono con la stessa emozione che provo quando devo attaccare le palle all’albero di Natale, tanto che sospetto che anch’egli ormai perda gli aghi per lo stress.
Non intendo chiaramente fare di tutta l’atmosfera un informe polpettone più di quanto non lo sia già. E’ solo che fugando tra gli articoli di giornale come in un guardaroba, mi sento un ciccione depresso che vede più la montagna di roba che non gli va che la miseria che gli si addice.
Certo l’America e l’Italia sono due paesi diversi e molte analisi in tv assomigliano a calcoli di commercialisti scarsi, cioè: se il risultato non combacia, basta allungare i numeri come si fa con un elastico. Poi ci sono le domande sempre uguali: Perché non ti sistemi? Perché non fai lavare la macchina? Perché il tuo lavandino gorgheggia? Perché se il tofu ti fa schifo lo compri di nuovo? Chi voteresti tra un tizio a cui hanno cucito un anello di totano nelle labbra e una che avevano scartato al provino perché han preso il nonno? Perché la sinistra ha perso?
Non sarò l’unico a pensare che quest’ultima domanda non abbia più senso. Né troverei ragion d’essere se a porla fosse uno stanco cronista dopo anni di carriera, uno che non ci prova più e a cui neanche i cruciverba tiran su il morale. Avete presente quando vi regalano un libro che è praticamente un corpo contundente? Per di più su un argomento che vi fa capire che i vostri migliori amici o non vi conoscono affatto o vi odiano. La prima cosa che facciamo è scartare le pagine che non sono il corpo del testo: via la copertina, la dedica, l’edizione, l’indice, le note bibliografiche, l’indice analitico, i ringraziamenti e, se butta bene, un po’ di pagine pubblicitarie sulla medesima collana. Quanto ci resta? 700 pagine! Ma porca…
Ecco, questo è, per i democratici e i commentatori, l’equivalente dell’analisi di una sconfitta elettorale.
Chiedersi perché la sinistra ha perso è il primo passo per non rispondere alla domanda. I motivi per cui accade sono ben chiari e, per l’ennesima volta, ce lo si chiede solo per cercare altre risposte che non siano quelle note. Tornando all’esempio del libro: il romanzo è stato scritto anni fa ed è già un mattone. Tuttavia ad ogni ristampa lo si infarcisce di prefazioni di gente che non conosce l’autore e neanche ci prenderebbe un caffè assieme, di note bibliografiche riferite a testi lontani nel tempo, e di pubblicità di altri libri sull’argomento che confondono i più – sono quelli con la testa sulla parete che bofonchiano di presunta superiorità culturale.
Se posso dare una consiglio ingenuo ai politici americani e italiani: “Non avete perso perché non siete più voi stessi, ma perché non la smettete di essere voi stessi. Siate coloro che volete rappresentare. Siate chi decide di non votare, chi vede i politici tutti uguali, chi pensa che il proprio voto non conti nulla e il più delle volte a ragion veduta, chi fa la fila per fare altre file, quindi cominciate a non votarvi. Per la miseria pesatevi, misuratevi e trovatevi mancanti!”. Invece ci si guarda i piedi e ci si fa intervistare da podologi a corto di cruciverba la cui domanda ficcante è: “Chi votereste tra Trump e Harris?” Se fossi un politico risponderei con una domanda: “Se fossi un immigrato? Perché se non lo sei prima, lo diventi poi”.
Parliamo anche dell’altra metà dell’universo: ovviamente non siamo noi cittadini ad invidiare la politica di questo o quel paese, ma se fosse possibile, sarebbero le dirigenze dei vari paesi a contendersi i popoli come il nostro. Ha vinto Trump e allora è la fine della democrazia. Questa è la risposta che ci si è confezionati. Ho visto “The apprentice” e se è attendibile anche solo per l’uno percento, il problema non è cosa bisognava fare per batterlo, ma cosa si poteva fare di meno per farlo vincere. Rimane infine quella quisquilia del programma fatto di idee decenti, ma è già roba dalle caviglie in su.