Economia & Lobby

Dopo il voto Usa mi è più chiaro: nelle politiche neoliberiste c’è il germe del totalitarismo

di Michele Sanfilippo

Dopo l’ennesima conferma delle elezioni americane, a me appare ormai lampante che nelle politiche economiche neoliberiste, in presenza di un governo che non intende mitigarle attraverso profonde misure di riequilibrio della ricchezza, vi sia il germe del totalitarismo.

Alla vigilia del voto mi ha fatto davvero ridere, ma forse dovrei dire piangere, sentire fior di analisti politici, perlopiù appartenenti all’area (sedicente) progressista, sostenere che Biden ha fatto cose straordinarie per l’economia. Poi, purtroppo, l’inflazione ha eroso il potere d’acquisto delle classi medio basse e tutto lo straordinario sforzo prodotto dalla sua amministrazione non è stato “percepito” (testuale).

Ovviamente la mancata percezione è stata amplificata dall’enorme quantità di fake news (che, ovviamente, vengono prodotte solo da uno schieramento politico) che hanno influenzato ulteriormente l’ingenuo elettore, incapace di distinguere il bene dal male.

A me pare, invece, che gli elettori abbiano percepito benissimo che l’economia promossa dal Partito Democratico (ma non solo con Biden: Clinton e Obama hanno fatto anche peggio) abbia fatto crescere il Pil e la ricchezza americana, ma che non ci sia stata una ricaduta sui loro redditi e sulla efficacia del loro potere d’acquisto. È sufficiente una minima scossa economica per far vacillare la fiducia di milioni di persone, soprattutto in un paese come gli Usa che non fanno del welfare la loro bandiera.

Questa paura ha certamente orientato il voto negli Usa ma, prima, anche in quasi tutti i paesi europei, Italia compresa. Quasi tutti i governi a maggioranza progressista in Europa, come negli Usa, non sono stati in grado di praticare politiche economiche in grado di redistribuire la ricchezza prodotta al fine di erogare strumenti di welfare adeguati a garantire la protezione alle fasce di popolazione meno abbienti che, almeno in Italia, stanno crescendo ad una velocità vertiginosa.

In questo contesto le destre più radicali riescono a parlare meglio ai non garantiti, perlopiù puntando il dito contro l’immigrazione (che a loro dire è incontrollata, pericolosa e alimentata dai nemici del paese) e contro la concorrenza sleale, operata in campo commerciale dai paesi asiatici. Insomma le destre raccontano agli elettori che il nazionalismo sia la risposta giusta ai loro problemi.

È ovvio che nel nostro mondo, sovrappopolato, in piena crisi ambientale e attraversato da conflitti che per adesso sono locali (quello tra Ucraina e Russia e quello tra Israele con il resto del Medioriente), ma che potrebbero facilmente sfuggire di mano, il nazionalismo non è la risposta giusta. Non lo è stato nella prima metà del ‘900 e ancor meno può esserlo oggi. Ma finché vincerà elezioni su elezioni la destra continuerà a fare la destra e continuerà a proporre soluzioni anacronistiche e inefficaci come il nazionalismo e un giorno, magari, l’autarchia.

Se si vuole invertire questa tendenza ormai quasi inarrestabile, occorre che la sinistra torni a fare la sinistra (non il centrosinistra), cominci a compiere analisi serie delle reiterate sconfitte elettorali e arrivi a proporre soluzioni politiche che tengano conto del fatto che o ci salviamo tutti o non si salva nessuno.

Con l’occhio sempre rivolto al macroscopico problema ambientale che affligge il nostro pianeta, occorre usare le tasse per redistribuire la ricchezza perché chi è reso indigente, irrilevante e disperato dal nostro sistema politico economico ha bisogno di una proposta diversa dai nazionalismi. Altrimenti possiamo dire addio alle democrazie rappresentative, sempre che non sia già troppo tardi.

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