Dall’Europa al Giappone, la crisi dell’auto si allarga a macchia d’olio. L’ultimo costruttore a capitolare è stata la nipponica Nissan che pianifica 9mila licenziamenti a causa del calo della domanda. Ma è solo l’ultimo caso di una lunga serie di chiusure di stabilimenti, annunci di esuberi e revisioni delle stime dei profitti. Ventiquattro ore prima la connazionale Toyota aveva comunicato il primo calo dell’utile operativo degli ultimi due anni e una flessione dei profitti trimestrali del 20%, principalmente a causa di difficoltà produttive e di mercato in Giappone e Stati Uniti.

Va detto che le case auto vengono da anni molto ricchi, tuttavia la tempesta è arrivata veloce e potente. Un doppio ruolo chiave lo gioca la Cina, il più grande mercato al mondo per le quattro ruote ma, da poco, anche il più grande costruttore/esportatore. La domanda cinese cala ma la concorrenza dei suoi marchi cresce. I costi sono in aumento mentre il mercato è ovunque fiacco.

E tutti pagano dazio. In Europa soffrono tutti, a cominciare dalle case tedesche che si sono scoperte in grave ritardo nel passaggio alle motorizzazioni elettriche. Cosa mai successa prima, la Volkswagen è arrivata a prospettare licenziamenti in patria e la chiusura di tre stabilimenti. È forse la fine di un modello di relazioni sindacali che aveva resistito per mezzo secolo: il posto assicurato in cambio della disponibilità della forza lavoro a fare sacrifici salariali nelle fasi di difficoltà.

Non va molto meglio per gli altri big teutonici. Mercoledì Bmw ha comunicato un calo dell’utile del trimestre dell’84% a 476 milioni. Già lo scorso 10 settembre il gruppo aveva tagliato le proprie stime sull’intero esercizio a causa di “venti contrari” sul settore dell’auto, con un ribasso dell’utile operativo, in calo dal precedente 8-10% al 6-7% dei ricavi. Anche Mercedes ha provveduto, nelle scorse settimane, a ridurre le sue aspettative di profitto, principalmente a causa della frenata della domanda cinese. La vittoria di Donald Trump, che ha promesso di alzare i dazi anche sulle auto che arrivano dall’Europa, complica ulteriormente le cose. Non a caso all’annuncio della vittoria di Trump è seguito un calo di quasi il 10% dei titoli delle case tedesche.

Il gruppo franco – italiano Stellantis è relativamente protetto dalle politiche commerciali di Trump, essendo proprietario di Chrysler, marchio americano che dovrebbe invece beneficiarne. Stellantis è pure scarsamente presente sul mercato cinese, in passato un grave punto debole, in questa fase un vantaggio. Tuttavia, anche per la casa sorta dalla fusione tra Fca e Psa, i tempi sono grami e le vendite continuano a scendere, innanzitutto negli Stati Uniti. A fine settembre la casa italo francese non ha fatto mancare il suo “profit warning”.

Sull’elettrico, anche Stellantis è in ritardo e, come tutti,fronteggia una penalizzante evoluzione dei modelli di consumo. Difficile che i dazi che l’Ue ha deciso di imporre sulle importazioni di vetture elettriche dalla Cina risolvano la situazione, potrebbero, anzi, rivelarsi controproducenti in caso di ritorsioni da parte di Pechino. In Italia, dove, a differenza degli altri paesi europei, il gruppo guidato da Tavares è in pratica l’unico protagonista, la produzione è quasi ferma. Il ricorso alla cassa integrazione è continuo e massiccio, investimenti già annunciati, come la giga factory di Termoli, sono congelati. C’è, in compenso, un grande attivismo nel chiedere aiuti pubblici più corposi. Le vendite continuano a scendere, le quote di mercato a contrarsi.

Inevitabile che, in Italia e non solo, a risentirne sia tutta la filiera. Le aziende di componentistica del Nord Italiana riforniscono i produttori tedeschi tanto quanto Stellantis, si trovano tra l’incudine e il martello. Il problema è comunque europeo. Nei giorni scorsi il produttore di pneumatici francese Michelin ha annunciato la chiusura di due stabilimenti in Francia a causa di una domanda debole a fronte di costi energetici in aumento. Il fornitore tedesco Schaeffler taglierà 4.700 posti di lavoro in Europa “a causa della debolezza del suo business industriale e del crollo delle auto elettriche”: circa 2.800 esuberi riguarderanno la Germania ma si teme anche per un sito italiano nel Novarese.

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