E’ ritornato, come ormai era abbastanza prevedibile a ridosso del voto, più incattivito, più motivato – o la Casa Bianca o il tribunale -, più agguerrito nel denunciare preventivamente falsi brogli prima della chiusura delle urne, supportato da allarmi bomba fasulli generati secondo l’Fbi da “domini digitali russi” (e questa non è una news).
La formidabile macchina del caos e della manipolazione capillare di Trump corroborata dalla genialità tecnologica di Elon Musk oliata e perfezionata nella campagna elettorale più aggressiva di sempre era pronta a dispiegare i suoi effetti per la notte annunciata come “infinita” e per il duello “all’ultimo voto” che non c’è stato. Perché quella di Trump, che probabilmente non aveva previsto nemmeno lui, è stata una vittoria schiacciante e non solo per lo scarto nettissimo in fatto di delegati, 291 a lui e 223 per la Harris, ma per le dimensioni inimmaginabili del voto popolare: 5 milioni di voti più della sua avversaria.
Molto più che nelle precedenti competizioni, una netta maggioranza degli elettori ha visto in un ex presidente già condannato con tanto di foto segnaletica, già beneficiato dalla Corte suprema da una inedita impunità, l’agognato “cambiamento” e ha creduto nella promessa della nuova “golden age”.
L’avversione per le odiose élites, di cui Kamala Harris sarebbe la personificazione, ha perfezionato e reso possibile il sogno della rivincita totale, quello che Netanyahu non ha esitato a definire “il più grande ritorno della storia”, ovvero la presa del potere questa volta e per la prima volta senza l’impaccio del bilanciamento tra i poteri dato che il Senato è saldamente repubblicano, il Congresso lo diventerà con una maggioranza più ridotta, la Corte Suprema era già stata “espugnata”.
Trump si è conquistato tutto questo dopo aver abilmente e spregiudicatamente vampirizzato quello che restava del partito repubblicano con una campagna elettorale lunga, martellante, iper-scorretta, sguaiata tenendo presente le regole messe in atto dai tempi di Apprentice: aggredire e accusare sempre e comunque; negare l’evidenza; non riconoscere mai di aver torto. Ma senza sottovalutare nemmeno le conclusioni di B., suo riferimento naturale, che nel 2013 a Coffee Break aveva detto testualmente “l’elettore medio ha l’evoluzione mentale di un ragazzino di 12 anni che non sta nemmeno nei primi banchi”. In Italia come negli Usa.
Fatto sta che è riuscito “incredibilmente” a far convergere su di lui un voto trasversale da categorie tutt’altro che scontate: donne che lo hanno votato perché “tanto non devo andare a cena con lui”; metà della generazione Z perché “delusi dalla Harris” e affascinati dai suoi balletti su TikTok; afroamericani e ispanici perché rassicurati dal pugno di ferro sulle politiche migratorie; arabi e islamici perché i democratici sono troppo accondiscendenti con Netanyahu e allora gli hanno preferito uno che ha istigato Israele a fare peggio e ha garantito sostegno illimitato. E naturalmente ha portato a votare in massa, come mai prima tutto il suo elettorato: i maschi bianchi che si sentono impoveriti e discriminati, la potentissima e articolata lobby ebraica, i numerosi movimenti pro-vita di ogni provenienza.
Per converso Kamala Harris è partita svantaggiata dai tempi, dalle modalità dell’investitura, dal suo ruolo istituzionale, dall’equilibrismo quasi obbligato sul conflitto israelo-palestinese, sempre più allargato. Ma è stata penalizzata anche dagli eccessi ideologici della cancel culture e delle istanze woke, dall’esasperazione del “politicamente corretto” imposta dal #MeToo e dal mondo lgbtq che hanno finito per fare da catalizzatori per impulsi conservatori e reazionari e per alimentare un machismo spesso becero. Insomma una manna per la narrazione trumpiana che ha portato un’enormità di consensi.
Ora ci troviamo comunque catapultati anche noi che non siamo cittadini americani, e abbiamo sentito ripetere che per noi non cambiava nulla e che comunque Trump o Harris pari sono, nella sua “età dell’oro” che può trasformarsi facilmente in età della paura a meno che, auspicabilmente, non mantenga le promesse che assomigliano molto a minacce.
Prima fra tutte l’impegno a riportare in 48 ore la pace in Ucraina, come in Palestina. Il suo progetto di risoluzione in proposito è molto semplice: cappio al collo a Kiev che deve essere disarmata e deve accettare tutte le mutilazioni territoriali imposte da Mosca nonché il divieto ad entrare in Europa e nella Nato; mano libera a Netanyahu a Gaza (che secondo il suo genero e suo consigliere andava spianata per fare villini per i coloni) e in Cisgiordania.
A festeggiare la “nuova era di pace e prosperità” di cui ha già goduto l’amico geniale Elon Musk in un giorno più ricco di 20 miliardi di dollari sono, con ottime ragioni, Netanyahu insieme a Orban e Salvini con cravatta trumpiana, che si sentono rispettivamente rafforzati in Europa e in Italia, e dopo la prudenza iniziale Putin, che vede in un “paese ostile” tutti i poteri concentrati nelle mani di un uomo con cui il reciproco “supporto” risale ai tempi di Hillrary Clinton.
A confidare nel Trump pacificatore-pacifista, animato da un disinteressato anelito di armonia mondiale, si sarebbe aggiunto Giuseppe Conte che d’altronde ha sempre riscosso (e ricambiato) le sue simpatie.