Stamattina il mondo si è svegliato preoccupato, almeno quella parte di mondo a cui appartengo. Anche più angosciato di otto anni fa. Me compreso. La sensazione è che Trump arrivi alla presidenza ancora più cinico, più radicale, sicuramente più arrabbiato.

E ci si domanda, nella mia parte di mondo che è sempre convinta di essere “i buoni” e di avere ragione, come possa il popolo americano, 330 e rotti milioni di persone di ogni origine, aver votato quello sbagliato. Come possa aver premiato Trump tra i grandi elettori ma anche, per la prima volta, nel voto popolare. Sul Corriere, Gianluca Mercuri riassume in questo modo “l’impronta ideologica di Trump: protezionismo economico, guerra tariffaria contro amici (noi) e nemici (i cinesi), avanzata del proibizionismo antiabortista, disimpegno americano nel mondo, soluzione rapida dei conflitti in corso che può tradursi in un sostanziale via libera a Putin in Ucraina e a Netanyahu in Medio Oriente […] L’ala destra del trumpismo ha un programma dichiaratamente estremista: sostituzione di 50 mila dirigenti dell’amministrazione federale con fedelissimi del presidente, espulsione di milioni di clandestini, fine delle politiche di contrasto al cambiamento climatico, controllo delle scuole e soprattutto delle università”.

Come possono aver eletto uno così? Quello dell’assalto al Congresso, della candeggina al posto dei vaccini, degli immigrati che mangiano i cani e dei 34 capi di imputazione. E la risposta, che in genere ci diamo noi buoni quando perdiamo le elezioni, è che il popolo non ha capito, si è sbagliato, che la gente è ignorante (questo è vero). Ci si barrica nel concetto di “tirannia della maggioranza”: se si è maggioranza si ha ragione e si vince anche se quando non si fa la scelta giusta (condivido pure questo).
È un modo per non ammettere la sconfitta, l’inferiorità rispetto a chi consideriamo inferiore.

Il fatto è che un successo elettorale per il candidato uscente, per chi ha amministrato e ha tutto da perdere, si regge sempre sui soliti tre pilastri. La candidatura di Harris non poggiava su nessuno dei tre.

Il primo è aver governato bene: concetto banale, ma il governo Biden non passerà alla storia per il suo operato. La vicepresidente Harris è artefice e conseguenza di quell’operato. Il secondo è nella comunicazione: chi amministra deve puntare su una campagna elettorale costruttiva. Tocca a chi fa opposizione demolire, dire che è tutto uno schifo, attaccare l’avversario. Harris invece è scesa sul piano di Trump: frecciatine, riferimenti personali. “Mai discutere con un idiota, ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza.” E infatti l’ha battuta. Il terzo, forse il più importante: comprendere l’elettorato. I democratici non lo hanno fatto e non lo stanno facendo. Gli analisti già dicono che “Kamala è stata tradita dalle minoranze”, che gli ispanici “non si sono fidati di una donna”: questi retrogradi! Minuto dopo minuto emerge come le minoranze etniche si siano schierate (a sorpresa?) con Trump; i figli di immigrati con chi dichiara guerra all’immigrazione: “come hanno potuto?”.

La verità è che non è una sorpresa ma una consolidata tendenza. Arroccati sulla nostra – e sempre giusta – visione del mondo, dimentichiamo che sono proprio le minoranze, coloro che coi denti hanno lottato per ritagliarsi un pezzetto di quello che è oggi il loro Paese, a temere l’arrivo di altre minoranze. Loro sono ancora gli ultimi, ma sono anche quelli che sono rimasti aggrappati a una società che non li voleva, hanno resistito. Sono americani, si sentono americani, in un moto di omologazione che è istinto alla sopravvivenza. Sono infatti anche quelli più in bilico, coloro che più hanno da perdere da nuove spinte sociali, dalla concorrenza.

Chiudere i confini? Per chi è dentro, per chi ce l’ha fatta, va benissimo. Generazione dopo generazione, le minoranze etniche si spostano a destra: è un fatto, che non vogliamo vedere. La sinistra è ancora con le minoranze, sono le minoranze a non essere più con la sinistra. Harris lo ha capito solo all’ultimo ed è rimasta in un limbo tra ciò che il suo elettorato tradizionale voleva sentire e ciò che non poteva dire (e che Trump urlava). Non ha governato bene, non ha comunicato bene, non ha compreso l’elettorato e di conseguenza ha perso le elezioni: è la democrazia, bellezza! Quella stessa democrazia che non sempre fa vincere chi merita, ma di certo fa perdere chi sbaglia.

Si dirà che Trump era un candidato peggiore, che il suo governo era stato peggiore: può darsi, ma è solo la consolazione di chi resta fermo, convinto di avere ragione. Il mondo, intanto, si è spostato.

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