Riesco a fatica a ricordare come vivevano i residenti di Hamad City, 393 giorni fa. Cammino e non mi rendo conto, sommersa dalla quantità di macerie. Cerco nella memoria le immagini di questo quartiere residenziale in cui una volta ero venuta a trovare un amico, prima della guerra. Mi torna in mente una battuta che gli avevo fatto: “A Khan Younis avete una seconda città che si chiama Hamad, da quando siete così prolifici qui al Sud?”.
Hamad City è stata costruita nel 2016 con i fondi donati dall’Emiro del Qatar come compensazione per le famiglie dei martiri e degli orfani palestinesi. Esclusi alcuni edifici che il governo ha voluto regalare a certi gruppi locali, il resto delle case sono state assegnate ai figli dei martiri, che avevano vissuto per anni senza un tetto sulla testa, senza niente da chiamare “casa”. Tra queste mura, ora distrutte, le persone hanno vissuto gioie e dolori, hanno passato il Natale, il Capodanno e le altre feste religiose: erano cariche di memoria. Con le sue strade pulite, i suoi negozi di cartoleria e di caramelle e i giardini dove portare a giocare i bambini il pomeriggio, Hamad City era un mondo per chi ci abitava.
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Adesso tutte queste memorie tristi e felici si sono convertite in razzi, bombe e distruzione senza pietà. Sono andata tra le rovine di Hamad city per fare delle foto da mostrare al mondo. Tra le macerie ho visto persone che dormivano in tenda vicino ai resti di casa loro, famiglie che provavano a riparare i buchi nel tetto o i muri rimasti in piedi: anche solo una stanza, meglio vivere lì che andare per strada. I giardini alberati si sono trasformati in grandi appezzamenti bombardati, pieni di tende e di centinaia di persone con venditori ambulanti di cibo in scatola e verdure troppo care per chiunque. Mentre gli uomini e le donne chiedono l’elemosina in giro, i bambini vanno a caccia di legna o plastica tra le macerie, da ardere per scaldarsi o per cucinare. Hanno tutti lo sguardo assente e la faccia di chi non sa cosa succederà dopo. Si muovo su carretti di fortuna trainati da animali. Di sicuro per quelle strade nessuno di loro troverà più caramelle, dolci o carne.
Mentre scattavo le mie foto, mi chiedevo per chi stessi documentando quella distruzione e per quale scopo, visto che il mondo riceve ogni giorno immagini come queste sui cellulari e per noi non è cambiato niente.
Dentro di me sentivo che ognuna di quelle case era come casa mia, ogni pietra un mattone di casa mia. Come si sente chi ha perso casa sua? Ho cercato una risposta a questa domanda. Chi può, torna spesso a vedere le macerie? Avrò mai la possibilità di tornarci, io? Cosa sarà rimasto delle pietre di casa mia ad Al Mughraqa, poco più a sud di Gaza City? Riuscirò mai a scattare una foto di casa mia distrutta, avrò la possibilità di ricostruirla? Magari con i miei vicini con cui prendevo il caffè una volta…
Più guardo le macerie di Hamad City e più mi deprimo, perché penso che non vedrò mai le mie rovine. Penso a quante persone sono sepolte sotto questi sassi, quante famiglie sono state cancellate dal registro civile, quanti bambini hanno perso i genitori e quanti hanno perso le braccia o le gambe.
Mi sconforta vedere le rovine degli altri e immaginare i loro sentimenti. Non riesco a immaginare i miei, visto che non posso tornare a casa mia. Ha senso continuare a vivere così? Anche se lo avesse, sopravviveremo? La risposta la conosce solo il destino.