di Luca Boccoli*
Negli Stati Uniti ha vinto il simulacro più autentico della democrazia consumista che da tempo ha soppiantato quella rappresentativa. Nemmeno le stelle hollywoodiane progressiste sono riuscite a far brillare Kamala Harris, incarnazione di un establishment ammuffito e incancrenito, distante anni luce dalla working class e dalle fasce più emarginate della popolazione; non è servito neppure l’endorsement di Bruce Springsteen lanciato da un diner: anche lui simbolo decadente, ormai distaccato e sentimentalmente lontano dal riscatto sociale di cui cantava nei suoi album giovanili.
Se chi proclamava di voler rivoluzionare il mondo con messaggi e azioni politiche, diventa lo status quo – e se lo status quo significa rinchiudersi in una torre d’avorio e non toccare più con mano i drammi delle persone che si pretende di rappresentare – allora ha fallito. Così, a trionfare è un misogino, omofobo, xenofobo, che incitava all’assalto di Capitol Hill.
In un mondo in cui tutto diventa un prodotto usa e getta, anche l’esercizio del voto perde quel valore (quasi) sacrale che dovrebbe derivare dall’essere, almeno teoricamente, il fulcro decisionale nevralgico della società che ci siamo dati. Il voto diventa più simile al televoto di un talent show. Rapido, estemporaneo, fugace. Ad essere incoronato vincitore è chi meglio intrattiene il pubblico per quattro o cinque minuti; chi riesce a risvegliarci, quel tanto che basta, dal torpore esistenziale in cui siamo immersi, prima che ricadiamo nell’oblio narcolettico.
Poco importa allora cosa dica Donald Trump: la moltitudine distratta, annoiata e assuefatta al consumismo iconografico, ha bisogno di lui. Vuole sentirsi viva e per farlo, non le interessano i suoi discorsi ma i modi in cui appare. Questo spiegherebbe almeno in parte la sua vittoria negli stati della Rust Belt (post)operaia e il consenso raggiunto tra i latinos. Perché, quando la politica diventa essa stessa consumo, i programmi elettorali non si ascoltano né leggono; si vota d’istinto, in quei pochi attimi in cui il cervello viene eccitato dagli stimoli del circo mediatico. E in quegli istanti, Trump appare antisistema, vero, autentico: la persona comune che frigge le patatine al McDonald’s o che guida il camion della spazzatura. Non il miliardario che viaggia in jet privato.
Forse questa elezione non dovrebbe stupirci. La democrazia, così come l’abbiamo studiata e vissuta nei decenni passati– quando ci si infiammava per degli ideali – è evaporata. Perché a svanire è stata la volontà stessa di immaginarsi un mondo differente. Ci siamo arresi all’ineluttabilità neoliberista ed è scomparsa l’elaborazione analitica e sintetica lasciando spazio una landa popolata di pensieri sconnessi, volatili, privi di significato profondo. Ma in una contemporaneità che senso non ne ha, si cercano figurine di facile fruizione e godimento, non persone. E allora, chi meglio di Donald Trump?
Dobbiamo prendere atto del fatto che a vincere è stato il faro più luminoso di quel consumismo democratico che sta accecando una realtà oramai gassosa, che si accende e si spegne al ritmo intermittente di una battuta o di uno slogan. Ammesso che esista ancora la voglia di riorganizzarci per migliorare le nostre società decadenti, dobbiamo lavorare su due direttrici. Anzitutto, riappropriarci di una visione di mondo possibile demolendo il neoliberismo in tutte le sue dimensioni e proponendo alternative concrete. E poi, riappropriarci delle fondamenta strutturali del nostro “Esserci” (per dirla in termini heideggeriani) nel mondo.
Siamo ancora in tempo, ma le lancette dell’orologio corrono veloci.
*Portavoce nazionale Giovani Europeisti Verdi