Membra della delegazione italiana: "I gravi divari nell'azione climatica stanno irrigidendo le posizioni di molti Paesi in via di sviluppo, che sottolineano la mancata accelerazione nella riduzione delle emissioni e il sostegno da parte dell'Occidente"
“Il divario tra l’azione in corso e quella necessaria ad affrontare il cambiamento climatico implemendo l’Accordo di Parigi è chiaro dal primo Global Stocktake concluso l’anno scorso alla COP28. I Paesi ‘in via di sviluppo’ chiedono fondi e maggiori responsabilità ai Paesi ‘sviluppati’, i quali già fanno fatica a far accettare alla propria opinione pubblica la transizione”. Sintetizza così i punti chiave della Cop29 che si è appena aperta a Baku Anna Pirani, senior scientist presso CMCC (Centro euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici), membra della delegazione italiana alla Convention sul clima e direttrice di un programma strategico sugli impatti socioeconomici del cambiamento climatico. La scienziata anzitutto prova a rassicurare rispetto a una possibile ricaduta dell’elezione di Trump: “I negoziatori tecnici statunitensi saranno gli stessi, sono un team molto preparato ed efficace. Queste difficoltà si faranno semmai sentire al livello politico”.
Il primo Global Stocktake ha concluso un lavoro iniziato alla COP26 nel 2021 per valutare i progressi collettivi verso gli obiettivi di Parigi. Il documento conferma la valutazione scientifica secondo cui che siamo lontani dall’azionare le misure di mitigazione per la riduzione di emissioni gas serra, di adattamento a rischi climatici sempre più complessi e di orientamento dei flussi finanziari. Per la prima volta della storia delle COP si è tuttavia parlato in un documento decisionale di combustibili fossili e di una “transition away” dagli stessi. Il lavoro dietro le quinte per arrivare a questa frase è stato lungo, passando per proposte considerate inammissibili.
Da scienziata è soddisfatta della formula finale?
La formula finale della COP28 rispecchiava la sintesi della scienza del ultimo rapporto del IPCC, evidenziando l’importanza centrale dell’interfaccia tra scienza e politiche climatiche. Tra altri cinque anni, il processo del Global Stocktake si ripeterà, con il nuovo ciclo di valutazione del’IPCC iniziato quest’anno che dovrà fornire la base scientifica completa e aggiornata in tempo. La COP28 si era inoltre conclusa con l’attivazione del Fondo per le perdite e danni e dell’obiettivo globale di adattamento.
Cosa è successo dopo Dubai?
Tra la COP 28 e 29 abbiamo avuto la presidenza italiana del G7 che ha mantenuto l’ambizione sulla mitigazione. I G7 hanno riconosciuto la necessità di aumentare gli sforzi nei Paesi in via di sviluppo e più vulnerabili, in particolare in Africa. Ciò nonostante, durante il corso dell’anno, vediamo la crescita di una posizione dove non si parla più di un’azione collettiva, guidata dai principi di equità e di responsabilità comuni, ma i differenziate e rispettive capacità. Ora si sta tornando a posizioni pre-accordo di Parigi originarie della Convenzione sul cambiamento climatico (UNFCCC).
Che cosa vuol dire?
Vuol dire mettere l’enfasi sulla distinzione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo. L’Accordo di Parigi era riuscito a oltrepassare questa divergenza geopolitica. I gravi divari nell’azione climatica stanno irrigidendo le posizioni di molti Paesi in via di sviluppo, che sottolineano la mancata accelerazione nella riduzione delle emissioni e il sostegno da parte dei Paesi sviluppati. Si tratta di tornare a rimettere l’enfasi su chi è responsabile storicamente e deve pagare. Ma questo non è semplice.
Ci spiega perché?
La responsabilità delle emissioni che causano il riscaldamento si complica negli ultimi decenni. Vediamo la forte crescita di economie emergenti classificate sempre come Paesi in via di sviluppo dalle Nazioni Unite, con la Cina che ha superato gli Stati Uniti. Gli effetti di queste emissioni sono globali e richiedono una risposta basata sulla cooperazione internazionale. Ma anche se i Paesi fossero tutti d’accordo su ciò che bisogna fare, senza un’adeguata finanza che supporta la transizione è difficile attuare qualsiasi trasformazione.
Questa COP sarà dunque essenzialmente legata al tema della finanza?
Sì, non a caso è detta la “Finance COP”. Si dovrà definire un nuovo obiettivo legato alla finanza per l’azione climatica, il New Collective Quantified Goal (NCQG). I negoziati dovranno trovare il consenso per un accordo che oltrepassi la contrapposizione tra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati, ai quali viene comunque chiesta una maggiore responsabilità. Poi ci sono altri temi: si valuta, ad esempio, come funziona il meccanismo che informa i negoziati sulle perdite e i danni (Warsaw International Mechanismo for Loss and Damage).
È frustrante per voi scienziati vedere come la scienza avanza, mentre la politica si divide sul clima?
Con l’apertura della COP, la World Meteorological Organisation (WMO) confermerà che è ormai praticamente certo che il 2024 sarà l’anno più caldo mai registrato. Stiamo vivendo eventi estremi sempre più frequenti che causano impatti e rischi sempre più complessi da gestire. Le informazioni scientifiche diventano sempre più sofisticate, comunicate chiaramente dagli ultimi rapporti dell’IPCC. Il mio lavoro in questo contesto è proprio quello di verificare che le ultime informazioni scientifiche siano correttamente rappresentate durante i negoziati. Mi auguro che anche alla COP29 ciò accada: le forze politiche, lungi dal rifiutare l’informazione fornita dagli esperti, dovrebbero appoggiarsi ad essa.