Cultura

Morituri, tutte le fake news sui gladiatori. Ecco il libro sulla vera storia dei combattenti nelle arene romane

“Morituri te salutant!”. Ma quando mai. Con Morituri – La vera storia dei gladiatori (Garzanti), scritto dagli storici Luca Fezzi e Marco Rocco, potrete finalmente mettere ordine ai tanti dilemmi sorti dalle rappresentazioni cinematografiche, seriali, letterarie e videoludiche che mettono al centro una delle figure più celebri dell’immaginario dell’Antica Roma: i gladiatori.

Intanto, come dicevamo in apertura la frase “morituri te salutant” (coloro che stanno per morire ti salutano) detta dai gladiatori al cospetto dell’imperatore è un falso storico (oggi diremmo fake news). E sapete perché? Perché l’unica testimonianza possibile di quella frase è di Gaio Svetonio Tranquillo nella Vita dell’imperatore Claudio e si riferisce non alle parole di un gladiatore, ma a ciò che dissero alcuni dei 19000 condannati a morte che si prestarono alla cruenta rappresentazione sul Lago Fucino di una battaglia navale tra rodiesi e siciliani. La testimonianza riporta anche che Claudio rispose “forse no” e molti di questi rincuorati rinunciarono a combattere. Ulteriore postilla: Claudio incerto se giustiziarli tutti per quella reazione corse attorno al lago costringendoli a combattere. Insomma, a scavare tra le fonti, a riordinare senza sensazionalismi e semplificazioni da serate su Rai1, si scoprono parecchi dettagli di figure storiche che ebbero voce solo per conto terzi: biografi imperiali, testimonianze scolpite su pietra e vasellame o di recente film, serie e videogiochi. Il Gladiatore, ca va sans dire.

Sul capitolo II il giudizio è ancora sospeso perché all’epoca della stesura del saggio gli autori non hanno ancora visto il film, anche se, scrivono, “solo il trailer rivela altri elementi improbabili (tra cui una naumachia nel Colosseo del III secolo e un combattimento con un rinoceronte … usato però come cavalcatura)”. Noi che il film l’abbiamo visto segnaliamo che la ricostruzione della battaglia di Salamina nel Colosseo (con gli squali!) sotto gli imperatori Geta e Caracalla nel terzo secolo dopo Cristo, Fezzi e Rocco la collocano duecento anni prima sotto l’impero di Augusto in quella che pressappoco oggi sarebbe Piazza San Cosimato.

Invece attorno al Gladiatore di Scott del 2000 i due autori ricordano un abnorme falso storico e diverse curiosità. Commodo non uccise il padre Marco Aurelio, perché quest’ultimo non morì assassinato. Invece Scott nel primo capitolo di quella sembra già una futura saga, e ancora di più Anthony Mann con il suo film nel 1964 La caduta dell’impero romano, sviluppò a livello di senso e atmosfera una sorta di tendenza generale della storia romana: con Commodo (“una specie di mostro irrazionale e assetato di sangue”) iniziò un declino irreversibile dell’impero.

Del resto il “ridicolo” Commodo era uno che voleva emulare i gladiatori travestendosi da Ercole, mostrando un coraggio pubblico ben congegnato e tutelato: “durante i 14 giorni di giochi offerti a Roma nel 192, secondo le fonti si coprì di vergogna in molti modi: prima abbatté un centinaio di orsi in tutta sicurezza, bersagliandoli di giavellotti a breve distanza, dal parapetto degli spalti; poi si misurò nell’arena con animali addomesticati o imprigionati in reti; infine combatté con alcuni atleti e gladiatori armati solo di bastoni”. Anche Geta e Caracalla, il duo imperiale crudele e dissennato del Gladiatore II, come scrivono gli autori del saggio, lottarono come venator contro leoni e bestie feroci. Ma torniamo all’imbastitura generale del saggio, corposamente corredato da oltre 50 pagine di note. Siamo nel 264 a.C. nella zona dell’odierna piazza in cui si trova la Bocca della Verità. Si stanno consumando le esequie del senatore Decimo Giunio Bruto Pera. “Sono in pochi però a non restare sorpresi dall’inattesa comparsa al termine dell’incenirazione di alcune figure armate: tre coppie di combattenti (…) le quali, avvicendandosi nella piazza, si scontrano sotto gli occhi dei convenuti”. Si tratta della prima testimonianza di un duello tra gladiatori, combattimenti come “servizi dovuti in onore dei defunti”.

Pratica che sembra fondare la sue radici, comunque, fuori Roma, “nei cruenti riti funebri diffusi tra etruschi e campani”, scrivono Fezzi e Rocco, tanto che su alcune urne etrusche del III secolo a.C. vengono ritratti “combattimenti tra pugili o uomini armati (…) ora nudi o cinti da un perizoma o un corto mantello, provvisti di spada e scudo rettangolare o circolare”. Le testimonianze negli anni successivi cominciano a infittirsi. Nel 216 a.c. ventidue paria si affrontano nel Foro per celebrare, in onore del console Marco Emilio Lepido, tre giorni di giochi funebri, ma nei decenni a venire saranno apprezzati e voluti da Cesare, come da Augusto, addirittura Traiano dopo la vittoria definitiva sui daci, all’inizio del 107 celebrò “la vittoria offrendo al popolo 123 giorni di giochi, durante i quali si affrontarono 10000 gladiatori e furono uccisi 11000 animali”. Va ricordato inoltre che parallelamente ai combattimenti dei gladiatori si diffondono anche le venationes: sfilate ed esibizione di animali esotici e non solo, con successiva cruenta caccia a cui partecipavano spesso anche molti gladiatori.

Il saggio di Fezzi e Rocco è una miniera inesauribile di dettagli storici, anche i più minimali. Prendete il capitolo Lo spettacolo della morte dove si entra letteralmente nelle arene dei combattimenti. Troviamo così anche la rivendita di biglietti modello bagarinaggio per i posti più ambiti da cui seguire i truculenti eventi; l’evoluzione di elmi e armature e la quasi assenza di fonti per le tecniche di combattimento (i gladiatori mancini erano comunque molto apprezzati); la prova reale su scheletri che per dare il colpo di grazia ai gladiatori che venivano uccisi si usavano perfino enormi martelli; ma soprattutto che la storia del pollice verso o all’insù dell’imperatore va tutta riscritta. In pratica dobbiamo scordarci il pollicione dei social perché secondo un medaglione databile tra il II e III secolo rinvenuto nel 1997 a Nimes per giustiziare il richiedente grazia il pollice era sia verso l’alto che il basso, mentre la salvezza del richiedente si concedeva piegando o stringendo “il dito all’interno del pugno chiuso, a imitazione di una spada rinfoderata”.