Non c’è Gladiatore senza Russell Crowe. Si sapeva anche prima. Ora con l’arrivo in sala (14 novembre) del Gladiatore II ne abbiamo conferma. Un po’ come se girassero un Rocky senza Sylvester Stallone (l’hanno fatto? E chi se n’è accorto?). Come se girassero un Equalizer senza Denzel Washington (e lo diciamo apposta). Se togli il magnetismo, il carisma, la fotta, anche un po’ grezza, di Massimo Decimo Meridio dentro al Colosseo, la tagliuzzi e ne ripartisci l’aura, la vibrazione viscerale su almeno due protagonisti (Lucio/Pedro Pascal – Acacius/Paul Mescal) onesti e pure industriosi, ma espressivamente piatti e quasi sovrapponibili, ecco che escono ragione, e poco sentimento, del Gladiatore numero due.
Per carità un film sicuramente guardabile, di fattura compatta e rapida, ma senza quell’epica, quel pathos, quell’atmosfera leggendaria che il Gladiatore del 2000 suscitò in mezzo pianeta permettendo a Ridley Scott di firmare il suo vero ed ultimo successo commerciale e critico. Chiaro, sbilanciarsi con uno specchio per verificare il riverbero della matrice è scorciatoia retorica facile, ma il rischio, mettendo sotto una lente asettica il Gladiatore II, sarebbe comunque quello di ritrovarsi a fare i conti con un Pompei di Paul W. S. Anderson qualunque.
Del resto Scott da un po’ di anni (Tutti i soldi del mondo, Napoleon) ha trovato in David Scarpa allo script una sorta di suo doppio alla regia: pattinare con energia e spregiudicatezza sulla superficie scintillante delle storie senza troppo indugiare nello scavo minimale e nella polvere del tempo. Nel Gladiatore II ogni personaggio è qualificato attraverso una grossolanità caratteriale e psicologica che sfiora il macchiettismo: la coppia di imperatori efebici e fluidi che fa tanto villain millennials delle serie streaming; i senatori omosessuali che sculettano come Michel Serrault nel Vizietto (che era una farsa, ricordiamolo); l’insaziabile vedovella Lucilla (Connie Nielsen) grondante magoni e lacrime per tutto il film; ma soprattutto l’istrionica e incontrollabile performance di un Denzel Washington (Macrinus, intrallazzatore di schiavi, denaro e potere) che sembra uscito da uno Shakespeare della domenica pomeriggio.
Per unire i puntini, infine, tra capitolo uno e due, c’è peraltro bisogno di rendere Lucio Vero (Pascal) figlio di Massimo, disturbato a morte nel decennale ritiro africano della florida Numidia. Città che viene messa sotto assedio delle spietate legioni del generale Acacius (Mescal), fidato ammiratore del coraggio e della saggezza politica di Massimo, compagno di Lucilla, ma qui in involontaria veste di sterminatore di popoli e pure della compagna guerriera di Lucio, tal Arishat. Battaglia ferocissima con migliaia di morti e con Lucio che viene deportato a Roma come schiavo: finirà invincibile gladiatore alla corte del sibillino Macrinus, sfiderà babbuini killer, gladiatori che cavalcano rinoceronti, galee romane che veleggiano nel Colosseo pieno d’acqua e di squali. Intanto Acacius e l’amata Lucilla stanno imbastendo una congiura democratica per abbattere gli imperatori folli Geta e Caracalla. Qualcuno tra senatori e insospettabili figuri della scena tradirà i congiurati e toccherà a Lucio far tornare Roma una sorta di impero di pace senza violenza e sangue (sic), dopo aver indossato la corazza di papà Massimo e sbaragliato ogni avversario dentro, ma soprattutto fuori l’arena.
Il confronto con l’antico si misura in un dispendio scenografico funzionale e magniloquente dove c’è molta verticalità craterica tra arene, colonnati, edifici di una Roma finemente chiaroscurale, zeppa di masse mendicanti lebbrose oltre le porte di confine. Scott esplora drammaturgicamente tutto il possibile e l’immaginabile, dal rapporto edipico alla rivolta politica, poggiandosi sul solito largo spettro realistico che vuole essere sia sporco sia raffinato, ammassando un’abbondante quantità di coprotagonisti per infinite sottotrame e linee di dialogo. Il ritmo dell’azione è più sbilanciato sulla rapidità di montaggio che sull’ampia varietà d’inquadrature (in questo il primo Gladiatore aveva sì qualcosa di finemente magico). Mentre la narrazione più snella nella prima parte, si appesantisce oltre metà film di ripetute scene madri e di un turning point legato alla reali intenzioni di un personaggio: soluzione più sulla carta che di effettiva profondità sullo schermo. Il cast non è proprio quella luccicanza che ci è stata venduta nel pacchetto “prime impressioni” post anteprima californiana (Washington è sornionamente overacting più alla nemico di Batman che altro). Quasi 300 i milioni di dollari di budget. Distribuisce Paramount che andò a segno con il sequel di Top Gun.