È stata annullata la sentenza storica con cui nel 2021 un tribunale olandese aveva ordinato al gigante del petrolio Shell di ridurre le proprie emissioni di carbonio e quella dei suoi fornitori e acquirenti del 45% netto entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019. Per la prima volta una società era stata obbligata ad allineare le sue politiche all’Accordo di Parigi, ma la decisione presa dalla Corte d’Appello de L’Aia ribalta la sentenza di primo grado che aveva creato un importante precedente per i contenzioni climatici. Il tribunale dell’Aia stabilisce che “Shell è obbligata a ridurre le proprie emissioni di CO2, ma non può determinare quale percentuale si applichi”. Il verdetto con cui la Corte d’Appello ha accolto il ricorso di Shell è arrivato al secondo giorno della conferenza delle Nazioni Unite sul clima, che si sta svolgendo a Baku, in Azerbaigian.
Un caso iniziato nel 2019 – Il caso era stato sollevato nel 2019 dalla filiale olandese di Friends of the Earth (Milieudefensie) ed era stato sostenuto da altri sei gruppi e più di 17mila cittadini olandesi. I gruppi per il clima avevano chiesto alla corte di imporre tale riduzione, affermando che la multinazionale anglo-olandese avrebbe dovuto raggiungere gli obiettivi di emissioni contenute negli accordi sul clima di Parigi del 2015, ma che non faceva abbastanza. In realtà, sia Shell che i gruppi ambientalisti avevano fatto appello. Shell contro la decisione, gli attivisti climatici sostenendo che il gruppo petrolifero non stava rispettando la sentenza. La decisione della Corte d’Appello rappresenta una sconfitta per la filiale olandese del gruppo ambientalista, anche se la sentenza civile può essere appellata alla Corte Suprema olandese.
Annullata la storica sentenza – La giudice Carla Joustra ha dichiarato che Shell ha già degli obiettivi per le emissioni di carbonio climalteranti che sono in linea con le richieste di Friends of the Earth, sia per quanto riguarda la produzione diretta che per le emissioni prodotte dall’energia che la società acquista da altri (scope 1 e 2). “Attualmente non c’è accordo sufficiente nella scienza del clima su una percentuale di riduzione specifica a cui una singola azienda come Shell dovrebbe attenersi. Inoltre – scrive la corte – Shell sta già lavorando per ridurre le proprie emissioni”. Il tribunale è del parere che “l’obbligo per Shell di ridurre di una certa percentuale le emissioni di CO2 causate dai clienti dei suoi prodotti (scope 3) sia inefficace”. La Shell potrebbe adempiere a tale obbligo interrompendo il commercio dei carburanti acquistati da terzi che, però, potrebbero acquistarli da un’altra azienda. Per la corte, dunque, “in quanto grande società del petrolio e del gas” Shell ha un obbligo a ridurre il cambiamento climatico “largamente causato dalle imprese dei paesi industrializzati”, ma “questo non significa che la Corte può applicare lo standard generale del 45% a Shell”.
Le reazioni – Nel commentare la decisione, il direttore di Friends of the Earth nei Paesi Bassi, Donald Pols, ha sottolineato che la sentenza sostiene, comunque, che Shell deve ridurre le emissioni prodotte in modo diretto dalle sue operazioni, ricordando che l’esplorazione e gli investimenti in nuovi giacimenti di petrolio e gas sono in contrasto con l’Accordo di Parigi e che le leggi dell’Ue, come la direttiva sulla due diligence di sostenibilità aziendale, impongono alle grandi aziende di ridurre le proprie emissioni per rispettare l’accordo e sono applicabili alle singole aziende. “I nostri dati – ha commentato Laurie van der Burg, responsabile di Oil Change International per le Finanze pubbliche globali – mostrano che Shell ha in cantiere oltre 800 nuovi progetti di petrolio e gas che sono tutti incompatibili con il limite di aumento della temperatura globale di 1,5°C, e altre grandi compagnie petrolifere sono su un percorso simile verso la distruzione. Ecco perché – aggiunge – il caso Shell fa parte di un’ondata di recenti casi climatici volti a ritenere le compagnie petrolifere e del gas – i piromani che alimentano il caos climatico – responsabili del loro ruolo nel guidare la crisi”. Sono 86 le cause legali intentate contro i produttori di combustibili fossili, tra cui BP, Chevron, Eni, ExxonMobil e TotalEnergies. E, secondo un recente rapporto, il numero di quelle avviate ogni anno contro le aziende produttrici di combustibili fossili è quasi triplicato da quando è stato raggiunto l’Accordo di Parigi nel 2015.