di Domenico Chiarella*

Il ponte tra Calabria e Sicilia sarà il ponte sospeso più lungo al mondo, una eccellenza dell’ingegneria italiana. Con questo slogan il 18 marzo 2023 il Ministero per le Infrastrutture e Trasporti presentava il progetto del ponte sullo Stretto di Messina.

La notizia riportata da La Repubblica sul mancato coinvolgimento dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) come istituzione allo svolgimento di indagini sulla presenza di faglie attive riaccende la discussione sulla solidità del progetto e sui rischi legati ad una sua eventuale realizzazione. Sebbene il progetto vada avanti e si spendano soldi pubblici, i dubbi sollevati da parte della popolazione e comunità scientifica legati al (i) potenziale impatto di un terremoto di simile o maggiore magnitudo di quanto registrato nel 1908 sul ponte e sulle città di Reggio Calabria e Messina, e (ii) la mancanza nell’area di studi dedicati per meglio comprendere la geometria, attività ed evoluzione di un assetto tettonico molto complesso, rimangono ad oggi ancora senza risposta.

Foto aerea dello Stretto di Messina con rappresentazione di alcune delle faglie che controllano la sua evoluzione. Credit: Dorsey, Longhitano, Chiarella (2023) Structure and morphology of an active conjugate relay zone, Messina Strait, southern Italy, Basin Research.

Occorre ricordare che a seguito del terremoto del 1908, le città di Reggio Calabria e Messina furono ricostruite senza particolare attenzione nel seguire procedure antisismiche. Questo significa che anche se si riuscisse a costruire un ponte capace di resistere a forti terremoti, il risultato sarebbe di avere una bellissima struttura ingegneristica che collegherebbe due aree completamente distrutte. Allo stesso tempo, non è chiaro quali e quante strutture a supporto del ponte siano state pensate e quale possa essere l’impatto delle stesse sul territorio e sulle comunità che ci vivono. Dove e quanto cemento è previsto? Quale l’impatto su un precario assetto idrogeologico già caratterizzato da fenomeni franosi? Vista la carenza d’acqua che si registra in Sicilia e Calabria, quanta acqua sarà necessaria alla costruzione del ponte e dove si pensa di reperirla e a scapito di chi? Se molto si parla in modo propagandistico del ponte stricto sensu, poco o niente si dice del suo impatto sulle comunità locali che nelle aree interessate dal ponte vivono.

Dal punto di vista scientifico, è importante sottolineare che non c’è ancora consenso nella comunità scientifica su quale faglia sia stata responsabile del terremoto del 1908. Per un progetto così ambizioso, prima che qualsiasi tipo di impegno verso la costruzione del ponte sia preso, e soldi che potrebbero essere spesi diversamente investiti (si stima che a marzo 2023 siano già stati spesi circa 300 milioni di euro per un costo totale dell’opera di circa 15 miliardi di euro), ci si aspetterebbe quindi un grosso investimento di risorse e fondi per finanziare progetti di ricerca utili a comprendere il contesto geologico e ambientale dentro il quale si voglia costruire l’opera sfruttando le risorse umane e di conoscenza presenti nelle Università, e centri di ricerca come CNR e INGV.

Se guardiamo al recente passato, l’Italia ha già intrapreso un simile ambizioso progetto con la costruzione della diga del Vajont. Considerato come quel progetto si è drammaticamente concluso per la popolazione locale e il suo territorio, le similitudini tra i due progetti non sono confortanti.

La diga del Vajont fu progettata nel 1920 e costruita tra il 1957 e il 1960 per la realizzazione di una riserva di acqua da usare per supportare la produzione di elettricità. Il 9 ottobre 1963 una mega frana causò uno tsunami che produsse grosse inondazioni e distruzione dei paesi di Erto e Casso posizionati sulle rive del lago e di Longarone e altri paesi lungo la valle del Piave provocando la morte di circa 2000 persone. La diga rimase intatta e la si può osservare ancora oggi a testimonianza che da un punto di vista ingegneristico il lavoro fu progettato ed eseguito correttamente, sebbene la ferita inferta al territorio e alla popolazione locale ne azzerano il presunto valore. Indagini post disastro hanno evidenziato come gli indicatori geologici per prevedere l’instabilità del fianco della montagna erano già presenti prima della frana e che la mancanza di studi specifici nelle fasi preliminari e coinvolgimento dei geologi durante la realizzazione del progetto, con tutte le decisioni chiave lasciate in mano agli ingegneri, crearono le perfette condizioni per il disastro.

Se guardiano a come il progetto della Diga del Vajont fu presentato nel 1943 dalle autorità italiane ‘La più alta diga ad arco al mondo. Il biglietto da visita per il lavoro italiano all’estero’ si può vedere che per il ponte sullo Stretto lo stesso tipo di propaganda usata per convincere la popolazione 80 anni fa ad accettare una opera faraonica è stata riesumata. Antonio Gramsci diceva che “La storia insegna, ma non ha scolari”. Speriamo che questa citazione non sia valida per il ponte sullo Stretto e questo progetto non si concluda con un bellissimo e intatto ponte che collega due città fantasma.

* Ordinario di Geologia, Royal Holloway, University of London – UK

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