La metamorfosi del titolo (da Avetrana-Qui non è Hollywood a Qui non è Hollywood), deliberata dal Tribunale di Taranto su richiesta del sindaco del comune salentino, avrebbe dovuto estendersi anche a una condanna agli autori del pessimo packaging pubblicitario della fiction in quattro puntate in onda, finalmente, su Disney+ (ma girata più o meno tre anni fa). L’elemento grottesco presente in quelli che un tempo si chiamavano flani e che hanno anticipato l’uscita della serie (poi, provvidenzialmente spariti dalla circolazione, ma reperibili in rete come tutto lo scibile umano) mostrano i cinque protagonisti-chiave, quasi allineati, che avanzano verso lo spettatore nella loro ridicola marcia, come una sorta di Quarto Stato di Pellizza da Volpedo in salsa burina. Questo mi ha portato su una strada sbagliata. E non solo me, ma quasi tutti coloro che non hanno potuto assistere all’anteprima durante la Festa del Cinema di Roma, in attesa di valutare la fiction in tv.
Stavolta – ho pensato, condizionato da quelle immagini orribili – questa serie toccherà il fondo dimostrandosi, una puttanata kitsch peggiore dei già inguardabili (e soprattutto inascoltabili) prodotti tv nostrani. E invece non è così. Mai farsi influenzare aprioristicamente, mai peccare di presunzione e di superbia, Dante mi avrebbe piazzato nell’ XI canto del Purgatorio: Qui non è Hollywood, diretto da Pippo Mezzapesa, 44 anni, di Bitonto, e prodotto da Matteo Rovere (regista, fra gli altri film de Il primo re) è una delle cose migliori che mi sia capitato di vedere sul piccolo schermo.
Del resto Mezzapesa, non troppo noto, aveva realizzato, oltre che alcuni documentari e corti, almeno tre bei film per il cinema (li ho visti stimolato da Qui non è Hollywood) e devo dire che sono opere di tutto rispetto: Il paese delle spose infelici, 2011, uscito con successo anche in Francia; Il bene mio, 2018; e Ti mangio il cuore, 2022, un b/n con Elodie in veste di attrice, premiato al Foggia Film Festival. Tutti girati in Puglia e dintorni e legati a realtà locali. Peccato che, come spesso accade a tanti film di valore, la distribuzione italiana non li abbia premiati granché. Ma Mezzapesa si è rifatto, grazie alla presenza su Disney+, con Qui non è Hollywood, titolo tratto da una scritta apparsa sui muri di Avetrana, anche se alcuni paesani sostengono che fosse lì anche prima dell’assassinio della piccola Scazzi.
Sarah in ebraico significa principessa e tale si è rivelata in paese:15 anni, gentile, fragile e (soprattutto) bella, al punto da far ingelosire la cugina Sabrina, ventiduenne sovrappeso, innamorata pazza del belloccio del paese, Ivano, salumaio in un supermercato. Le attenzioni, sia pur platoniche, di Ivan nei confronti di Sabrina l’avrebbero portata, con la complicità della madre Cosima, a uccidere Sarah. Così hanno deciso la Corte d’Assise (2013) e la Corte d’Assise d’Appello (2015) di Taranto e, in terzo grado, la Cassazione (2017), una sentenza attualmente al vaglio, per un riesame, alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Mentre il marito di Cosima e padre di Sabrina, Michele Misseri, condannato a 8 anni di galera per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove (fu lui a indicare il corpo della nipote, in un pozzo di campagna) continua a dichiararsi unico colpevole, dopo aver rinnegato la prima confusa versione dei fatti (Sarah e Cosima erano con lui nel garage teatro dell’omicidio).
Ebbene, la fiction si basa esattamente sugli atti del processo, anche se si ispira al libro Sarah. La ragazza di Avetrana di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni. A differenza, ad esempio del documentario Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio che si schiera apertamente dalla parte dell’oggi ergastolano Massimo Bossetti.
Quel che che rende la serie di Mezzapesa un unicum nel tristo mondo delle fiction italiane è la professionalità. Sia del regista che degli attori: riprese degne di una fiction britannica d’alta qualità, ambientazioni iper-realistiche, claustrofobica cappa di cattolicesimo ancestrale, archetipi di certa sub-cultura del profondo sud infarcita di omertà e, allo stesso tempo, voglia di apparire in tv, ma, soprattutto, attori fantastici, nella realtà persone fisicamente piacevoli, tutti accomunati da una capacità mimetica attribuibile sì al trucco, tutt’altro che apertamente posticcio, ma, soprattutto, a interpretazioni convincenti: Vanessa Scalera (sette ore di mimesi fisica quotidiana) che interpreta Cosima Misseri, in realtà è una bella donna, mentre qui diviene un’anziana terrorizzante nella sua freddezza e nel dominio assoluto sul marito Michele (Paolo De Vita), distrutto da un dilemma angoscioso che tenta di stemperare in ritualità dal sapore arcaico; Sabrina (Giulia Perulli con 22 chili in più), ossessionata dal peso e dalla cotta per il bello del paese (Giancarlo Commare) che con lei, ahimè, non raggiunge l’erezione; e, infine, Federica Pala, tra i 16 e i 17 anni durante le riprese, incantevole adolescente sognatrice, sola interprete bella nella realtà e nella fiction. Con una madre, Concetta, la napoletana Imma Villa, trasformata, in una donna che sprizza stanchezza e sofferenza atavica.
Bravissimi anche i comprimari. Tutti hanno seguito corsi di dialetto locale (altro che onnipresenti attricette dall’accento romano che non riusciamo a toglierci dai piedi…). Mezzapesa è un Lucio Fulci d’oggi “laddove la tecnica celebra il più felice imeneo col sinistro, l’ominoso, una indecifrabile mostruosità incombente”, scrive Davide Pulici su Nocturno ed Emanuele Di Nicola aggiunge “un Kechiche traslato nel Salento”. Infine l’aggressione mediatica, elemento sulla quale la fiction non punta particolarmente, concentrata com’è sui drammi personali.
Del resto Avetrana per secoli è stata un piccolo casale tormentato dalle incursioni dei Saraceni. Figurarsi quelle dei giornalisti e sedicenti tali…