Ci sono voluti 15 anni, ma è il bello e il brutto dell’Occidente. Ogni tanto un giudice, seppur tra mille difficoltà e a distanza di tempo, mette con le spalle al muro i responsabili di un misfatto. E in questo caso, non è una vicenda da poco: si parla delle torture nel carcere militare di Abu Ghraib, ai tempi della guerra in Iraq. Una giuria ha assegnato a tre ex detenuti 42 milioni di dollari di risarcimenti, e soprattutto, ha ritenuto responsabile una agenzia di sicurezza, la Caci, i cui operatori civili avevano partecipato agli interrogatori dei prigionieri, assieme ai militari. La Caci ha subito annunciato il ricorso. Si tratta della seconda sentenza di questo genere: la prima risale al 2013 e riguardò la Engility Holdings con la consociata L-3 Services.

Ci sono foto che raccontano un conflitto, armato o sociale; a volte basta un solo scatto. Il miliziano spagnolo colpito durante la guerra civile, immortalato da Robert Capa. Le bambine vietnamite con la pelle bruciata dal napalm. Per raccontare la guerra in Iraq, avvenuta nel maggio del 2003 da parte degli Stati Uniti per deporre Saddam Hussein, c’è questa immagine: un prigioniero con le braccia allargate, come se fosse crocifisso, piene di cavi elettrici, con un sacco in testa e una tela di iuta a coprire il corpo piagato. Fu quella foto, assieme ad altre, a far scoprire al mondo cosa accadeva ai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. La battaglia legale che ne è seguita, ha visto tre protagonisti – Suhail Al Shimari, Salah Al-Ejaili e Asa’ad Al-Zubae – chiedere il risarcimento al governo americano per essere stati sottoposti a violenze, abusi sessuali, nudità forzata.

Nessuno di loro era ritratto nelle foto che sconvolsero l’opinione pubblica americana, con i soldati sorridenti mentre eseguivano le sevizie, ma hanno affermato di aver subito trattamenti simili. A ciascuno dei querelanti sono stati assegnati 14 milioni di dollari. Che ruolo avrebbe avuto la Caci? I tre non hanno mai accusato in modo esplicito gli operatori civili, ma la giuria è giunta a conclusione che gli “esperti” dell’azienda avevano collaborato con i militari per “ammorbidire” i prigionieri. La sentenza è stata ben accolta dai querelanti e dal loro avvocato, Baher Azmy, legale del Center for Constitutional Rights. In fondo, la Caci aveva ottenuto dal governo americano un appalto di 31 milioni di dollari e la cifra stabilita dal tribunale è superiore. L’agenzia non ci sta e, annunciando ricorso, ha ricordato che “nessun dipendente Caci è mai stato accusato, penalmente, civilmente o amministrativamente, in questa vicenda. I dipendenti Caci non hanno preso parte a questi eventi inquietanti né sono stati responsabili di essi”.

Inoltre, l’agenzia ha messo in dubbio parte dei racconti dei querelanti, affermando che avevano il solo scopo di portarla in tribunale per il risarcimento, mentre la responsabilità sarebbe stata esclusivamente dei militari; la formula giuridica a cui fa riferimento la Caci è quella dei “professionisti presi in prestito”, in questo caso dall’esercito americano. Come dire, che di tutto ciò che accadeva ad Abu Ghraib erano responsabili gli uomini in divisa e non gli operatori civili. Questa argomentazione è stata uno dei nodi della battaglia legale, che ha avuto l’effetto di mandare a vuoto un primo procedimento. Per smontarla, l’avvocato dei tre querelanti ha portato la testimonianza di due generali che hanno confermato come in diversi interrogatori il personale Caci era presente. Inoltre, secondo l’Army Field Manual, la società privata è sempre responsabile delle attività del suo personale, anche dentro strutture militari.

Il cammino per giungere al verdetto è stato lungo: la causa è stata presentata per la prima volta nel 2008, in base all’Alien Tort Statute che consente ai cittadini stranieri di portare dinanzi ad una corte federale americana, casi di violazioni del diritto internazionale. Il risultato non è di poco conto, se si pensa che una giuria di cittadini americani in definitiva ha ritenuto valida la testimonianza di tre iracheni contro l’esercito a stelle e strisce. Uno di loro, Salah Al Ejaili vive in Svezia con la famiglia; nel 2003 era un reporter per Al Jazeera; fu fermato da una pattuglia vicino al luogo di un’esplosione e trattenuto per sei settimane ad Abu Ghraib. La sua testimonianza – riportata sul sito del Center for costituzionale rights – ancora oggi è vivida, sebbene risalga al 2017: “Per due mesi, la tortura ha assunto diverse forme, tra cui spogliarsi, essere rinchiusi in gabbia come animali, usare cani per intimidire, vietare cibo e bevande, ammanettare mani e piedi, umiliazioni fisiche, molestie sessuali e molte altre. Il mio corpo era come una macchina, rispondeva a tutti gli ordini esterni. “L’unica parte che possedevo era il mio cervello, che non poteva essere fermato dal sacchetto di plastica nero che usavano per coprirmi la testa. La domanda più importante a cui non sono riuscito a trovare risposta in quel momento è: a cosa serve tutto questo?”.

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