La notizia sembra essere presa di peso da una pagina del romanzo di Margaret Atwood, The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella). Purtroppo, non di fiction si tratta. L’Iran ha deciso di istituire cliniche per “curare” le donne che non intendono indossare l’hijab in modo corretto, o che si rifiutano in modo esplicito. A dare la notizia in forma ufficiale è stata Mehri Talebi Darestani, responsabile del Dipartimento Donne e Famiglia per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. “L’istituzione di questo centro – ha dichiarato la funzionaria – sarà dedicata al trattamento scientifico e psicologico della rimozione dell’hijab, in particolare riguardo alle adolescenti, i giovani adulti e le donne che cercano un’identità sociale e islamica; la visita a questo centro è facoltativa”.
Ma di facoltativo i dissidenti iraniani e i movimenti femminili pensano che vi sarà ben poco per come sono andate le cose fino ad ora, e temono che il regime sciita trasformi il rifiuto del velo in una patologia da curare. La questione dell’hijab ha contorni tragici. Basti ricordare due episodi di cronaca: il 13 settembre 2022, Mahsa Amini fu arrestata a Teheran, dove era in vacanza con la famiglia, dalla polizia religiosa per mancata inosservanza della legge sull’obbligo del velo. Qualche giorno dopo la giovane donna muore per le percosse. Ne segue un’ondata di proteste anche a livello internazionale, lanciato dal movimento anti-hijab “Donna, vita, libertà”.
Nei primi giorni di novembre, Ahou Daryaei, una studentessa redarguita per la mancanza del velo si spoglia fino a rimanere in biancheria intima. La sua foto fa il giro del mondo, ma di lei, dopo l’arresto, non si sa più nulla, nonostante l’appello di Amnesty International per il suo rilascio “immediato e incondizionato”. Quel che trapela è che Ahou è stata spedita in un centro per disturbi mentali. È bene dire che non si tratta di una novità in Iran. In seguito alle proteste del 2022, diverse artiste e attrici che si erano ritratte senza velo avevano ricevuto l’ingiunzione dal tribunale di presentarsi ai centri di igiene mentale per ottenere certificati di buona salute.
Questo tipo di pressioni hanno suscitato una reazione, tanto che quattro associazioni che raggruppano gli psichiatri iraniani hanno firmato una dichiarazione congiunta per condannare la pratica del governo di utilizzare diagnosi non scientifiche come forma di discredito per punire il movimento anti-hijab. Tornando ad Amnesty International, è da tenere presente il suo dossier dal titolo In death’s waiting room, nel quale si mettono in evidenza i pericoli di una detenzione nelle strutture iraniane; il paradosso è che il regime degli ayatollah, come scrive l’organizzazione umanitaria, tende ad abbandonare i detenuti senza cure: “Nel caso dei prigionieri detenuti per motivi politici, i risultati a lungo termine di Amnesty International mostrano che il deliberato rifiuto di accedere a cure mediche adeguate, è vissuto dai prigionieri e dalle loro famiglie, così come dalla società civile in generale, come un atto intenzionale di crudeltà volto a spezzare il loro spirito di resistenza, a punirli per il loro dissenso”. Nel caso del velo, invece, le cure ci saranno, e pure massicce, per convincere le donne che non lo vogliono indossare, che c’è qualcosa che non va nella loro testa.
È un corto circuito – almeno ad occhi laici – che a stabilire il ricovero forzato sia una donna. La figura di Tarebi Darestani è controversa persino in Iran: secondo i suoi detrattori – ma sono notizie difficili da verificare in modo indipendente vista la cortina alzata dal regime – la funzionaria si è espressa sulla televisione di Stato a favore del matrimonio infantile; in precedenza aveva guidato il Centro di ispezione del Ministero del Lavoro, ma nel 2023 era stata allontanata. Oggi, Darestani, nell’affrontare il suo incarico, fornisce una versione della realtà di questa portata: la clinica è necessaria per quelle donne “costrette” a ignorare le leggi islamiche sull’hijab, in modo da promuovere valori come modestia, castità e accettazione del velo. Se fosse una fiction, dunque, Talebi Darestani sarebbe una delle protagoniste del romanzo di Atwood: una donna che mette in riga le ragazze incapaci di comportarsi secondo i dettami di una religione. Ma in Iran è tutto vero, e oggi le rassicurazioni del presidente Masoud Pezeshkian, su controlli meno rigorosi per l’hijab, appaiono già una promessa non mantenuta.