Non solo l’emendamento per scegliersi i giudici che convalideranno i trattenimenti dei richiedenti, in Italia come in Albania. Tra le novità che il governo vuole inserire nel decreto “flussi”, prima del voto di fiducia fissato il 25 novembre, c’è anche l’emendamento “anti ficcanaso” sulle forniture di motovedette, mezzi di terra, tecnologie e quant’altro a paesi come Libia e Tunisia per la gestione dell’immigrazione. Che per il governo “impongono la necessità di adottare speciali misure di sicurezza nell’esecuzione dei relativi contratti”, dice la relazione allegata all’emendamento. “È la pietra tombale sull’esercizio di un diritto importante come l’accesso civico e la conoscenza delle politiche di governo”, ragiona invece Duccio Facchini, direttore del mensile Altreconomia che in questi anni non ha mai smesso di chiedere e analizzare i dati della pubblica amministrazione, anche sul tema dell’immigrazione. “Se mettiamo insieme la mancata trasparenza sugli sbarchi, sui centri in Albania e, da domani, su tutti i contratti che riguardano la gestione dei flussi, possiamo dire che hanno fatto tredici”.
Direttore Facchini, vuol dire che non è una novità?
Lo è, ma fa anche parte di un percorso. Agendo su un decreto legge, peraltro fuori contesto, questo governo ci mette molta più forza. Ma già nel 2022 un decreto dell’allora ministra all’Interno, Luciana Lamorgese, riformò l’elenco dei documenti inaccessibili, sottraendoli a chi intenda richiederli con l’accesso civico generalizzato. Fece modo di includere atti, dati e informazioni relativi alla gestione delle frontiere, inclusi documenti e materiali che riguardano l’operato dell’Agenzia Frontex sul territorio italiano.
Per il vostro lavoro cos’ha significato?
Col decreto Lamorgese in questi anni ci sono stati opposti diversi dinieghi, sia dai ministeri che da agenzie vigilate dal governo, come l’Agenzia Industria e Difesa che si è occupata di forniture alla Libia. Quindi l’emendamento di oggi è gravissimo, ma sia chiaro che sono anni che ci provano, attraverso mille prassi e strategie sviluppate nel tentativo di ostacolare l’informazione e il controllo dell’operato dell’esecutivo.
Un esempio?
Hanno moltiplicato le stazioni appaltanti. Un tempo bastava seguire le pubblicazioni del Viminale. Poi abbiamo visto intervenire la Guardia di finanza, la Marina militare, contestualmente ma su diverse piattaforme da cui si capiva sempre meno e si finiva per perdere le tracce di ciò che veniva e non veniva pubblicato. Anche indicando il codice unico del procedimento e il nome del progetto per chiederne una sintesi generale, abbiamo incontrato ogni sorta di ostacolo per impedirci di conoscere quali motovedette, quante, da chi fornite e per quale ammontare. Insomma, anche le attuali opposizioni dovrebbero farsi delle domande.
Che fare?
Come per il decreto Lamorgese, siamo di fronte a qualcosa che riteniamo profondamente ingiusto. Qualora l’emendamento venisse approvato e dovessimo scontrarci con questa normativa, i giornalisti che se ne occupano già sanno che hanno lo strumento del ricorso alla giustizia amministrativa e non solo, anche a quella europea. Perché le frontiere non possono essere l’oscuro nascondiglio dei governi, non può e non deve funzionare così.
C’è stato un tempo in cui era diverso?
Pur con tutti i limiti e arrivando magari a cose fatte, fino a cinque anni fa la Direzione centrale Immigrazione e Polizia delle frontiere pubblicava sul sito del Viminale, nella parte dedicata a bandi e appalti di gara, le determine che riguardavano anche le forniture a paesi come Libia e Tunisia. Informazioni rintracciabili anche senza un accesso civico.
Cosa è emerso in questi anni?
Studiando le determine abbiamo raccontato le risorse finite in una gestione rivelatasi fallimentare, oltre che contraria ai diritti umani fondamentali. Centinaia di milioni di euro spesi in motovedette, mezzi di terra, formazione, consulenze e tecnologie che hanno contribuito al dispositivo di respingimento. Scoprimmo che a Marina di Riposto, in Sicilia, erano in manutenzione due imbarcazioni cedute alla guardia costiera libica e la determina diceva esplicitamente che il cantiere avrebbe dovuto occultare la loro presenza. Di male in peggio, siamo poi passati a determine dove nemmeno la destinazione delle forniture indicate è chiara. L’uso massiccio di espressioni generiche è assolutamente intenzionale ed è la prassi.
Perché fare mistero di queste forniture?
Paradossalmente si tratta di politiche rivendicate pubblicamente. Nella comunicazione del Viminale viene dato ampio spazio alle “partenze bloccate” da Libia e Tunisia. Ma finché rivendicano la politica fanno i gradassi, mentre se uno gli dice “benissimo, mi fai vedere il contratto, la gara, il responsabile unico, l’azienda che ha vinto, chi è e dove opera”, allora cala l’ipocrita cortina fumogena.
Quale la posta in gioco?
Oltre la decisa propaganda, che sulla questione immigrazione si nutre di una retorica che ha sempre bisogno di un timbro di assolutismo, e quindi secretare fa rima con sbarrare, bloccare, eccetera, vedo i governanti più esposti proprio sulla gestione delle risorse. Altreconomia ha incontrato spesso forniture alimentate da fondi che non c’entravano nulla. Tempo fa – ne é nato un esposto per uso illegittimo di risorse –, trovammo 9 milioni di euro destinati al carburante delle motovedette tunisine, ma presi dal fondo per la sicurezza delle stazioni ferroviarie italiane. Di questo si tratta, di non farsi beccare con le mani nella marmellata, dove la marmellata è la propaganda a tutti i costi che ti porta a fare anche scelte schizofreniche. Col rischio che, prima o poi, anche l’elettore più fedele si accorga che usi male risorse destinate ad altro.
Quali i rischi all’orizzonte?
Negare la trasparenza aumenta il rischio di risorse pubbliche utilizzate in forniture che violano, ad esempio, un embargo sulle armi. L’Agenzia Industria e Difesa si era impegnata a garantire forniture alla Libia e abbiamo chiesto di conoscerle, senza riuscirci. Il Tar bocciò il nostro ricorso in base al decreto Lamorgese, ritenendo le ragioni dell’Agenzia equivalenti al segreto di Stato. Decisione confermata un anno fa anche dal Consiglio di Stato. Hanno balcanizzato l’intero scenario giuridico, normativo, amministrativo. Per loro, ormai, negare l’accesso ai dati è un attimo, mentre opporsi è sempre più complicato e oneroso.
Di risorse ne abbiamo messe parecchie in Albania.
L’andazzo si è capito fin dalle prime battute: ricordo la procedura accelerata di gara per la gestione dei centri, impiccata nei tempi e poi affidata al colosso Medihospes. L’Albania lo rende evidente, ma vale per molti paesi europei: quando si tratta della gestione di risorse che hanno costruito anche grandi fortune elettorali, la strategia politica si scioglie come neve al sole, non regge più e allora ecco parcellizzazione e moltiplicazione dei costi.
Sul fronte sbarchi?
A gennaio, su nostra richiesta, ci sono stati forniti i dati dell’anno scorso sui luoghi di sbarco. Svelano come è stata costruita l’emergenza Lampedusa, necessaria a giustificare l’accordo con la Tunisia, ma anche quello con l’Albania. Di 158mila arrivi totali, nel 2023 ben 110mila sono stati fatti sbarcare sull’isola. Una concentrazione mai vista prima, senza che c’entrassero le Ong, già allora spedite in porti lontani, o gli sbarchi autonomi, meno del 10 per cento sul totale. L’hotspot di Lampedusa non poteva che esplodere.
E per quest’anno?
Ora il Viminale si rifiuta di indicare i luoghi di sbarco delle persone. Informazioni che fino al 2019 rendeva pubbliche, che poi è toccato richiedere e adesso vengono negate. Quest’estate abbiamo chiesto l’aggiornamento degli stessi dati. Lo stesso direttore che li aveva forniti a gennaio ha risposto che non ce li dà più perché, dice, significa agevolare i trafficanti. Ovviamente abbiamo fatto ricorso al Tar, l’udienza è fissata il 26 novembre. Voglio proprio vedere cosa ci diranno”.