di Giacomo Gabellini*
Nei giorni scorsi, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso la propria ferma intenzione di riattivare il processo di normalizzazione dei rapporti con le monarchie sunnite del Golfo Persico che era stato avviato con gli Accordi di Abramo, siglati nel 2020 sotto l’egida di Donald Trump (in foto).
La concomitanza tra l’esternazione e il successo elettorale conseguito dal candidato repubblicano alle elezioni presidenziali statunitensi scaturisce con ogni probabilità dall’auspicio che il premier israeliano nutre di ottenere il pieno appoggio del futuro inquilino della Casa Bianca. Non soltanto per quanto concerne la “liquidazione” della questione palestinese, ma anche in relazione alla definizione di un accordo diplomatico con l’Arabia Saudita e alla realizzazione della cosiddetta Via del Cotone. Vale a dire il corridoio commerciale-energetico alternativo alla Belt and Road Initiative cinese, proposto dall’amministrazione Biden nel settembre 2023 – appena un mese prima che le forze palestinesi scatenassero l’Operazione al-Aqsa Flood – per connettere l’Europa all’India.
Si tratterebbe, in buona sostanza, di elevare Israele al rango di snodo logistico delle nuove reti di collegamento di un “Grande Medio Oriente” definito dalla pacificazione tra lo Stato ebraico e le monarchie sunnite del Golfo Persico. Le quali otterrebbero a loro volta la possibilità di servirsi dello sbocco israeliano per canalizzare i propri flussi energetici verso il Mediterraneo evitando la rotta disseminata di ostacoli (Stretto di Hormuz, Stretto di Bab el-Madeb, pirateria nel Corno d’Africa, Canale di Suez, ecc.) che allaccia il Golfo Persico al Mare Nostrum. Riad incasserebbe per di più l’assenso statunitense e israeliano per dotarsi della tecnologia nucleare a fini (solo?) civili, oltre che l’integrazione in una serie di progetti hi-tech di matrice occidentale.
Gli idrocarburi del Golfo Persico andrebbero quindi a congiungersi a quelli scoperti sui fondali del Mediterraneo orientale, dando origine a un mercato di petrolio e gas di dimensioni sufficienti a ridimensionare la dipendenza europea dagli approvvigionamenti russi. Questa “area di prosperità” beneficerebbe della protezione dei Paesi del “vecchio continente”, offrendo agli Stati Uniti la possibilità di attuare l’agognato “disimpegno parziale” funzionale al riorientamento di sforzi e risorse verso i teatri di primario interesse geostrategico.
Un contesto simile agevolerebbe per di più il ripristino del Canale Ben-Gurion. Vale a dire un’infrastruttura concepita per collegare Eilat al litorale mediterraneo di Israele situato a nord della Striscia di Gaza, attraverso la valle del Wadi ‘Araba (nel Negev) e il bacino del Mar Morto.
Il progetto non è mai andato in porto, soprattutto perché, recita un cablogramma del Dipartimento di Stato risalente al 1956, “è già evidente che il governo israeliano tenterà di sfruttare l’attuale situazione nel Mediterraneo orientale per raggiungere quanti più obiettivi possibili. Sembra altrettanto chiaro che mescolare la questione palestinese con il tema legato alla costruzione del canale in un momento come questo complicherebbe ulteriormente entrambi i problemi”.
Di fronte allo scenario definito dall’Operazione al-Aqsa Flood e dalla campagna militare israeliana, il progetto è stato riesumato da alcune pubblicazioni arabe come il Jordan Times, che già nel novembre 2023 accusava Tel Aviv di perseguire “mire economiche estremamente chiare: la costruzione del Canale Ben-Gurion per collegare il porto di Ashdod a Eilat e sostituire così il Canale di Suez”. Una svolta che consoliderebbe il ruolo di Israele come crocevia fondamentale della “Via del Cotone”; offrendo allo stesso tempo ai porti israeliani che concorrono con quelli turchi per l’aggiudicazione del ruolo di snodi regionali della Belt and Road Initiative cinese un vantaggio strategico determinante.
Le concretizzazione delle ambizioni coltivate dalla classe dirigente di Tel Aviv passa tuttavia per la stabilizzazione dei rapporti con i sauditi, che allo stato attuale risulta assai difficilmente realizzabile.
Secondo una ricostruzione formulata dalla rivista statunitense The Atlantic lo scorso settembre, il principe Mohammed Bin-Salman avrebbe detto al segretario di Stato Antony Blinken che il 70% dei sudditi era più giovane di lui, e che “la maggior parte non ha mai saputo molto della questione palestinese. Vi è stata introdotta per la prima volta attraverso questo conflitto. È un problema enorme. Mi interessa personalmente la questione palestinese? A me no, ma alla mia gente sì”. Il principe avrebbe quindi sottolineato gli enormi costi politici connessi alla normalizzazione con Israele, citando come esempio l’assassinio del presidente egiziano Anwar al-Sadat, perpetrato da un membro della Fratellanza Musulmana due anni dopo la sottoscrizione degli Accordi di Camp David con il premier israeliano Menachem Begin. “Metà dei miei consiglieri afferma che l’accordo non vale il rischio. Potrei fare la stessa fine di Sadat a causa di questa intesa”, avrebbe dichiarato il leader saudita.
Più recentemente, il principe ha affermato che “il Regno ribadisce la sua condanna e il suo assoluto rifiuto del genocidio collettivo commesso da Israele contro il fraterno popolo palestinese”, ed esortato la comunità internazionale a obbligare Israele “a rispettare la sovranità della sorella Repubblica Islamica dell’Iran e a non violare i suoi territori”.
Il pronunciamento, così come le esercitazioni navali congiunte pianificate nelle acque del Mare dell’Oman tra le marine saudita e iraniana, si inserisce nel processo di disgelo delle relazioni tra Riad e Teheran, avviato grazie alla mediazione cinese nel marzo 2023 e implicante la riapertura degli uffici di rappresentanza, la profusione di investimenti comuni per la messa a regime dei giacimenti di gas nel Golfo Persico e l’assunzione congiunta dell’impegno a porre fine al conflitto yemenita.
L’attenuazione dell’attrito tra Arabia Saudita e Repubblica Islamica ha gradualmente svuotato di significato il progetto della “Nato mediorientale” di stampo anti-iraniano perseguito dall’asse israelo-statunitense mediante gli Accordi di Abramo: “La motivazione ad allentare le tensioni a livello regionale – si legge in un’analisi del Baker Institute – ha una base logica molto più solida rispetto agli Accordi di Abramo”, in cui l’autore dello studio riscontra cinque problemi fondamentali: mancanza di valore intrinseco, eccessiva dipendenza dagli Stati Uniti, gravi rischi che comportano per i Paesi arabi contraenti, enorme impopolarità presso le opinioni pubbliche arabe e incompatibilità con uno scenario regionale in rapido cambiamento.
* Analista di questioni economiche e geopolitiche e saggista. Gestisce il sito di approfondimento «Il Contesto» (www.ilcontesto.net)