Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Paolo Gerani per per ripercorrere i momenti più iconici del brand fondato dai suoi genitori e riflettere sulle sfide che il settore moda e il Made in Italy affrontano oggi
“I ricordi sono tanti. Anche se ero solo ragazzino ricordo l’energia della nascita di Iceberg, di mia madre Giuliana e Jean-Charles de Castelbajac che lavoravano assiduamente per un’idea rivoluzionaria che stava dando dei risultati obiettivamente anche inaspettati”. Paolo Gerani, Ceo di Gilmar e anima di Iceberg, introduce così la storia del brand che ha rivoluzionato il concetto di sportswear. Nato nel 1974 dall’intuizione dei suoi genitori, Iceberg è stato il primo a portare la maglieria nel regno della pop art, coniugando l’eleganza italiana con l’irriverenza dei cartoon. In un’epoca in cui la maglieria era confinata alla tradizione, ha rotto gli schemi portandola sulle passerelle e coniugandola con lo stile sportivo in un concetto rivoluzionario di sportswear deluxe. Un percorso di innovazione e stile, raccontato nel volume “Iceberg 1974-2024 Rewind-Fast Forward”, che celebra i 50 anni del brand tra immagini iconiche e collaborazioni artistiche. Ecco allora che abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Paolo Gerani per per ripercorrere i momenti più iconici del brand e riflettere sulle sfide che il settore moda e il Made in Italy affrontano oggi. Tra aneddoti personali, riflessioni profonde e una lucida analisi dell’attuale crisi, ci ha offerto uno sguardo privilegiato sulla storia del marchio e sulle sue intuizioni rivoluzionarie.
La vera ragione per la quale abbiamo pensato di fare un libro è perché pensiamo che il Brand in questi anni abbia avuto una serie importantissima di intuizioni e scelte, spesso strategiche, coraggiose e rivoluzionarie. Pensavamo che fosse giusto raccontare questo lungo percorso in un contenitore, in un libro, con una doppia finalità, quella di lasciare nel mondo della moda un segno, ma anche perché all’interno della nostra famiglia la terza generazione è grande e magari fra qualche anno vi sarà anche una quarta generazione.
Qual è l’aneddoto o il momento più significativo che emerge da questa raccolta di ricordi e immagini?
Non c’è un aneddoto particolare, ci sono alcuni ricordi indelebili di quando ancora ero estremamente giovane. Ricordo l’incredibile creatività di JCDC che in due ore di lavoro produceva idee sensazionali, avveniristiche e rivoluzionarie con una facilità sorprendente. Un secondo momento, più avanti con l’età, sicuramente divertente e tra i più stravaganti è stata la realizzazione della campagna pubblicitaria con David LaChapelle a Los Angeles durante il periodo degli Oscar. La modella era Pamela Anderson e la sera, dopo il servizio fotografico, siamo andati tutti insieme alla festa degli Oscar in un’atmosfera esilarante.
ICEBERG è stato un pioniere nel coniugare la moda italiana con lo stile sportivo. Come è nata questa visione e quali sono state le sfide nell’affermare questo concetto di “sportswear deluxe” prima che fosse ‘di moda’?
Nella nostra azienda ci sono due date fondamentali. Il 1974, che è l’anno che dà origine alla nascita del marchio e ve ne è un’altra ancora più importante che è il 1959, anno nel quale mia madre Giuliana Marchini Gerani e mio padre Silvano Gerani, insieme al fratello di mia madre Luciano, fondano Gilmar, che per tanti anni è stato conosciuto solo come Maglificio Gilmar. Oggi, Gilmar è una delle aziende più storiche del panorama italiano, tecnologicamente all’avanguardia con in savoir-faire produttivo tipico del Made in Italy. Verso il 1972-1973 mia madre istintivamente comincia a sentire un cambiamento, avverte che qualcosa nel mercato sta cambiando benché siamo nelle fasi embrionali della nascita della moda Italiana. Come riferimenti, ricordiamo che Armani nasce del 1975 e Versace nel 1978. Nel 1973 Giuliana Marchini Gerani, intuisce che il vestire formale e la produzione di maglieria super classica benché avesse ancora una sua logica di mercato, avverte l’esigenza di proporre al mercato qualcosa di differente. Erano anni un po’ rivoluzionari, dove vi era una voglia di cambiamento importante, gli anni di piombo e degli scontri di classe. Anni in cui parallelamente il reddito stava aumentano e nasceva un’esigenza ulteriore, quella di dare una risposta a coloro che volevano vestire meno eleganti nel week-end. Questo è stato l’incipit di partenza, cioè l’idea di vestire il tempo libero. Decide quindi di recarsi a Parigi, presso l’agenzia Creatori e industriali, che riunisce designer talentuosi, tra cui anche nomi importanti, e sceglie Jean-Charles de Castelbajac. JCSC di circa ventuno anni appare subito un designer di grandissimo talento e interpreta l’incipit che la Sig.ra Gerani gli dà creando insieme a lei un nuovo progetto che si rivelerà poi essere l’invenzione dello sportwear così che nel 1974, Giuliana Marchini Gerani insieme a Jean-Charles fondano ICEBERG. Il nome è già un segnale di rinnovamento importante. Il nome intraducibile nelle principali lingue al mondo era già di per se un’idea vincente. Insieme, consapevolmente o inconsapevolmente, danno origine a una delle più grosse fette di mercato al mondo che è quella dello sportswear. La maglia viene considerata non come una maglia classica, ma come un tessuto da tagliare, da ornamentare, da arricchire e nasce una delle più grosse rivoluzioni della moda italiana che è l’introduzione dello sportswear in chiave deluxe, in maglieria.
L’estetica pop, ispirata ai fumetti della Warner Bros, è un elemento distintivo di ICEBERG: come è nata questa scelta?
Castelbajac è stato un grandissimo innovatore, un rivoluzionario. Certo, erano anni più semplici di oggi e le grandi scelte, come per esempio fondare un nuovo marchio, venivano prese d’istinto, senza supporto di lunghe e costosissime ricerche di mercato. Giuliana e Giancarlo (Jean-Charles) erano due creativi pazzeschi e la rivoluzione che hanno portato attraverso la maglia, attraverso gli ornamenti applicati sulla maglia e interpretato la maglia come un tessuto, ciò da tagliare come un tessuto fu una rivoluzione accompagnata da un’ulteriore grande intuizione del 1981 di avvicinare il mondo del cartoon, di Snoopy o di Walt Disney sui capi. Questa grande intuizione dura tutt’ora, se pensiamo che ICEBERG fu il primo ad usare cartoon, ma oggi i più grandi marchi del lusso ne fanno uso.
ICEBERG è stato uno dei primi brand a portare la maglieria in passerella nel ’95: come sono cambiate le cose – e il ruolo di questi capi – da allora?
La maglieria ha una duplice valenza. Maglieria è sinonimo di praticità perché normalmente la maglia supera ogni durezza. Rispetto al tessuto è molto più resistente ed ha un ciclo di vita molto più lungo che perdura nel tempo. Di contro va detto anche che nel frattempo sono cambiati i climi, oggi fa caldo anche a gennaio e quindi l’uso della maglia oggi rispetto a un tempo dove si andava anche a -20gradi è differente. La maglia ha avuto ed avrà sempre una valenza importante, ma con delle finestre molto più leggere, quindi l’uso è pressoché uguale, fermo restando il cambiamento climatico.
Il libro dedica ampio spazio a Jean Charles de Castelbajac e James Long, due dei direttori creativi più longevi di ICEBERG. Qual è stato il loro contributo all’evoluzione del brand?
Diciamo che sono due personaggi che si parlano, la creazione e l’evoluzione. Jean-Charles de Castelbajac è l’uomo dell’intuizione, dell’inizio, della rivoluzione.
James Long è con noi dal 2015 e stiamo ormai andando verso i dieci anni di collaborazione. Lui è l’uomo del riposizionamento del brand, è l’uomo che lavora su un DNA che appunto è già stato scoperto e che ha l’onere e l’onore di maneggiare questa importante identità, rendendo il marchio sempre più contemporaneo rispetto ai giorni nostri. Un’ulteriore grande intuizione fu quella legata alla campagna ADV I contemporanei, di JCDC e Olivero Toscani, il quale fu chiamato da Castelbajac per un’ulteriore grande idea di comunicazione. La celebre campagna pubblicitaria prendeva un po’ spunto dal mondo dell’arte e della moda ed aveva l’idea di fotografare personaggi famosi dell’epoca, facendoli diventare una specie di ambassador del marchio. In quella straordinaria campagna, sono coinvolti personaggi come Andy Warhol, Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Joe Pomodoro, Elio Fiorucci, Franco Moschino, Vivienne Westwood e tantissimi altri. Jean Charles de Castelbajac rappresenta le intuizioni iniziali, le grandi rivoluzioni.
Ha lavorato con noi 12 anni. Sono quindi due lavori diversi, uno fondante e l’altro di continuità.
Cosa ne pensa dell’attuale valzer di direttori creativi da un brand all’altro, con i designer sostituiti dopo una manciata di collezioni?
Ovviamente, non posso conoscere tutte le vere ragioni per quali molti brand non danno continuità alla direzione creativa. Posso però immaginare che la crisi molto importante che il nostro settore sta vivendo possa trovare reazione, da parte di chi gestisce l’azienda, nell’identificare nello stilista una delle principali ragioni del non successo. E’ un po’ come nel mondo del calcio, quando una squadra non vince, l’allenatore è il primo a saltare e non sempre si dimostra essere la reazione più corretta. Ci sono momenti, e quello attuale ne è un esempio, in cui i risultati possono non arrivare indipendentemente dalle scelte di stile piuttosto che di comunicazione o d’altro. Secondo me, il momento che stiamo vivendo è un momento in cui non sono, o meglio sono ben chiare, le ragioni di questa profonda crisi che, dal mio punto di vista, non necessariamente trovano giustificazione nella testa del creativo.
ICEBERG ha sempre mantenuto un profilo discreto riguardo ai suoi direttori creativi. Perché questa scelta?
In cinquant’anni di storia, ICEBERG ha vissuto momenti diversi. Per circa 20 anni, dalla fondazione dal 1995 ad esempio, non abbiamo neanche sfilato e le collezioni venivano comunque realizzate da importantissimi direttori creativi. Negli anni ‘90, prima Tomas Maier e poi un giovane Marc Jacobs ha lavorato per noi per 4 anni, prima di lanciarsi alla direzione Creativa di Louis Vuitton. Gilmar ha fatto da scouting per tantissimi stilisti e creativi. L’idea, la nostra quasi ossessione, era quella di lanciare la giovane promessa un po’ come avviene nello sport. L’abbiamo fatto, senza chiedere nulla in cambio, senza richiedere di entrare in partecipazione nei marchi che magari all’epoca erano sconosciuti, ma che poi diventarono molto famosi. Si pensi anche a Giambattista Valli, Dean & Dan Caten prima della fondazione di DSQUARED, ma anche Anna Sui e Kim Jones. Il nostro approccio è sempre stato quello di credere nell’evoluzione del brand ed era molto legato all’energia creativa di questi personaggi, chiamati a reinterpretare le collezioni, rispettando sempre il DNA del brand.
Le campagne pubblicitarie di ICEBERG sono iconiche, con fotografie di Oliviero Toscani, Steven Meisel e altri grandi nomi; che ruolo hanno avuto?
I fotografi hanno avuto un ruolo molto importante. Il primo è stato appunto Oliviero Toscani, con I Contemporanei. Idea geniale, che insieme a Castelbajac ha dato vita ad una comunicazione che dopo 50 anni è ancora attuale ed anche molto copiata: quella di coinvolgere personaggi famosi.
Dopo il duo Castelbajac e Toscani, sono arrivati stilisti importanti come Marc Jacobs, il quale, per esempio, ha portato l’identità di Steven Meisel, che a sua volta non ha rinnegato il lavoro di Oliviero ma lo ha ripreso in chiave filoamericana quindi fotografando personaggi importanti americani come Iggy Pop e Farrah Fawcett, modelle che all’epoca non erano troppo conosciute ma che dopo pochi anni sarebbero poi diventare delle super top come Isabella Rossellini.
Degno di nota sicuramente il lavoro di David LaChapelle, che non rinnegando – a sua volta – il pensiero de I Contemporanei-Toscani e di Gente di Oggi -Meisel, essendo lui a Los Angeles vicino al mondo di Hollywood, scelse di non fotografare personaggi famosi ma di raccontare come fosse un film storie di personaggi famosi e quindi memorabili sono state le sue campagne dedicate a Jackie Kennedy e Onassis, ai Rolling Stones, al film di Scarface di Al Pacino, e molte altre.
Grandi maestri hanno sempre accompagnato il mondo di ICEBERG. Questi sono i tre principali ma ve ne sono tantissimi altri come Peter Lindbergh, Michel Comte, Patrick Demarchelier, Mario Sorrenti, Glen Luchford.
Il libro sottolinea l’importanza del distretto romagnolo come “territorio trainante del Made in Italy”. Come ha influenzato questo contesto la storia e l’identità di ICEBERG?
L’essere romagnolo non ha tanto influenzato l’identità del brand, ma ha sicuramente supportato e fortificato l’azienda. L’area di San Giovanni in Marignano ha delle eccellenze industriali che si sono tramandate e che sono anche cresciute nel tempo e quindi c’è un distretto che in effetti sta diventando una grande realtà a livello italiano. Trattandosi di una eccellenza italiana diventa un’eccellenza mondiale perché come sappiamo il Made in Italy è solo qua. Quindi più che avere influenzato il marchio ICEBERG questa area è ricca di aziende, di tutte le dimensioni, che rappresentano il meglio del savoir-faire italiano.
Quali sono state le sfide più grandi che avete dovuto affrontare nel corso degli anni?
Le sfide sono state tante e saranno sempre tante perché è insito con la vita dell’imprenditore; quindi, non c’è una sfida in particolare. La nostra è una sfida quotidiana. Per esempio, il periodo storico in cui stiamo vivendo è un periodo complicato e fare oggi l’imprenditore nel nostro settore della moda è veramente complesso. Il Covid-19, la guerra Russia-Ucraina, la guerra in Medio Oriente; noi imprenditori siamo chiamati sostanzialmente sempre a reagire di fronte ad ogni evenienza, nulla è nuovo. Negli anni Settanta c’è stata l’austerity, poi c’è stata la grande crisi degli anni Novanta e siamo, come dire, abituati. Quella dei giorni nostri però certamente, se proprio dobbiamo commentarla, è forse la crisi più complessa e più indecifrabile, inteso come cosa succederà domani, degli ultimi 30 anni.
Come è cambiato il pubblico di ICEBERG nel corso degli anni?
Il pubblico di ICEBERG nel corso degli anni è cambiato perché il consumatore di ICEBERG nel 1974 oggi ha banalmente 50 anni in più; quindi, è evidente che col passare degli anni il brand si riferisca a generazioni nuove. Va detto che l’avvento del mondo social e della globalizzazione in generale ha stravolto i concetti, perché è chiaro che oggi abbiamo a che fare con un mercato mondiale, il quale ha delle caratteristiche completamente differenti da un paese all’altro.
Per vendere in Cina devi saper fare cose che probabilmente sono un po’ diverse da quelle che fai per un mercato come gli Stati Uniti, che sono un po’ diverse da quelle che fai per Europa; quindi, avere a che fare con un mercato globale è molto complesso. I social media e l’esposizione mondiale, ci portano a dover evolvere con rapidità il nostro modo di fare moda sempre mantenendo ferma la coerenza con il nostro DNA. Dobbiamo avere anche la capacità di riuscire a dialogare con i giovani di oggi e dialogare con quelli che magari fra 10 anni potrebbero essere i consumatori ideali del brand. L’evoluzione del consumatore è un tema estremamente complesso e molto rapido, riuscire a intercettarli non è sempre facile.
A settembre siete tornati in passerella: cosa c’è nel futuro di ICEBERG?
Nel futuro di ICEBERG c’è tanta osservazione, perché come dicevo poco prima, poco fa, una delle grosse difficoltà per noi imprenditori è capire il domani. Le capacità previsionali che una volta erano addirittura business plan a cinque anni poi ridotti a tre anni si riducono ad una capacità di intercettare il futuro al momento molto labile. Ovviamente continueremo a investire sul brand a dare quanta più visibilità possibile ma non nego che oggi come oggi sia molto complesso fare delle previsioni su cosa sia giusto o più giusto fare per il futuro.
Qual è il suo ricordo più caro di questi 50 anni di ICEBERG?
I ricordi sono tanti. Anche se ero solo ragazzino ricordo l’energia della nascita di ICEBERG, di mia madre Giuliana e Jean-Charles de Castelbajac che lavoravano assiduamente per un’idea rivoluzionaria che stava dando dei risultati obiettivamente anche inaspettati. C’è anche un caro riferimento più dei giorni nostri. Gilmar è un’azienda fondata del 1959, un viaggio di circa 65 anni di età ed una delle cose che oggi ci rende tutti più orgogliosi è capire quanto attaccamento c’è da parte dei dipendenti a questo gruppo industriale. Venendo in Gilmar, si respira questo attaccamento spontaneo, un po’ come se i dipendenti avessero capito che l’azienda è anche loro.
E un rimpianto? Qualcosa che con il senno di poi avrebbe fatto diversamente?
Beh, tanti. Chi lavora, sbaglia.
Cosa significa per lei “Made in Italy” oggi?
Made in Italy oggi è un macchio distintivo che ci rende unici al mondo. Made in Italy è come dire Ferrari e quanto tu dici Ferrari dici eccellenza Italiana. Made in Italy è la nostra Ferrari. È un elemento di orgoglio che abbiamo solo noi Italiani. Forse l’unico rammarico è che non siamo capaci di valorizzare a pieno, le meravigliose cose che abbiamo, come appunto il Made In Italy e tanto altro.