Cinema

Giurato Numero 2, la resistenza morale di Clint Eastwood a un’idea industriale e narrativa di cinema

di Davide Turrini
Giurato Numero 2, la resistenza morale di Clint Eastwood a un’idea industriale e narrativa di cinema

Solido, sobrio, semplice. Difendere a oltranza e proporre con fervore la visione di un film di intrattenimento vecchio stile come Giurato Numero 2 del 94enne Clint Eastwood – 42esimo film da regista – è un atto di resistenza morale rispetto ad un’idea industriale e narrativa di cinema contemporaneo in cui non ci riconosciamo più, e che ci interessa molto poco.

Giurato numero 2, chiaramente osteggiato negli Stati Uniti dalla Warner che lo produce (ci torniamo), è di quei court room movie apparentemente convenzionali, dove però gradualmente emerge la robusta e sostanziosa regia eastwoodiana con un finale da urlo e il classico piacere da dibattito post visione. Tra i dodici giurati di un tribunale di Savannah in Georgia chiamati a seguire e sentenziare la colpevolezza di James, presunto violento assassino della fidanzata Kendall (Francesca Eastwood, figlia di Clint), spinta giù per un ponte contro le rocce in una notte di pioggia dopo un litigio in un affollato bar, c’è il giornalista Justin Kemp (Nicholas Hoult). Il ragazzo preferirebbe subito svignarsela per rimanere a casa con la moglie (Zoey Deutch), giunta ben oltre a metà gravidanza, ma non sussiste alcun motivo procedurale per mandarlo a casa.

Justin, poi, subito trasale perché la dinamica dell’omicidio esposta in aula, e per la quale l’imputato stragiura di essere innocente, ricorda in maniera impressionante il momento in cui nella stessa notte buia e piovosa Justin aveva spaccato mezzo cofano dopo aver accidentalmente investito quello che ha sempre creduto essere un cervo. L’agnizione è presto fatta con una rapida raffica di rashomoniani flashback: Justin è l’assassino involontario di Kendall, ma il suo passato da alcolista accentuerebbe un’ipotetica pena verso una galera a vita. Scosso dalla possibilità sia di condannare un innocente, ma anche di schermare la sua sconosciuta colpevolezza, in camera di consiglio proverà a convincere gli altri 11 colleghi giurati che mancano prove concrete per la condanna di James.

Una strategia per salvare capre e cavoli che però gli si torcerà apparentemente contro. Insomma, una specie di Delitto e Castigo screziato di alcolismo – su cui, per dire, un Woody Allen ci ha ricamato per anni le sue non proprio tarde motivate fortune – viene amalgamato dallo sceneggiatore Jonathan Abrams tra echi spettacolari alla Grisham e sottotrame socio-politiche più affini ai rovelli eastwoodiani.

Prendete l’avvocatessa dell’accusa – Toni Collette in tailleur tiratissimo – candidata al ruolo di procuratore generale che grazie a una leggera politicizzazione della sentenza del processo verrà eletta, ma rimarrà titubante nel riconoscere l’evidente colpevolezza di Justin. Perché è su questo latente senso di colpa individuale, su questa etica pubblica sfuggente in cui bene e male sembrano continuamente confondersi, che Giurato Numero 2 si libra cristallino tra il più classico impianto da thriller processuale e una sofisticata chicca autoriale del più grande vecchio autore della vecchia Hollywood.

Il film del resto non ha un vero e proprio centro spaziale e temporale. Il dibattimento si consuma asciutto e dettagliato dentro l’aula in nemmeno venti minuti. In camera di consiglio si consumano ripensamenti e scontri alla Lumet modello La parola ai giurati (il poliziotto in pensione interpretato da J.K. Simmons è un personaggio cesellato con una maestria hitchcockiana) ma anche qui la trama si fa porosa, luoghi e tempistica si sfaldano e ri-coagulano in un solo articolato teso tunnel di sicura colpa e giusta (o non giusta?) redenzione.

Giurato numero 2 dura quasi due ore ma fila come un treno. Hoult è bravo a recitare svuotandosi da ogni fuorviante empatia con lo spettatore, mentre il corollario di co-protagonisti interloquisce, pungola, brandisce interrogativi fino a spostare in maniera costantemente impercettibile l’asse di senso e attesa della conclusione. Corre l’obbligo di segnalare che il basso, bassissimo profilo che la Warner ha voluto tenere su promozione e supporto distributivo di questo film, inizialmente addirittura diretto allo streaming senza passare dalle sale, ha origine proprio dalla liquidazione che molte major stanno orientando verso i propri evergreen in listino. Nonostante Eastwood sia stato gallina dalle uova d’oro per loro, perfino in tempi di anzianità conclamata quando nel 2015 a 85 anni portò American Sniper a 5 grosse candidature agli Oscar e a un incasso di 600 milioni di dollari a fronte di un budget da 50. Che Giurato numero 2 sia l’ultimo film di Clint Eastwood, infine, spezza umanamente il cuore ma ci rimanda alla ricerca di nuove passioni da seguire, appunto, dopo la fine del cinema che l’addio di Eastwood comporterà.

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