“La storia insegna che Cina e Stati Uniti traggono guadagno dalla cooperazione e perdite dal confronto”. Il messaggio del presidente cinese Xi Jinping a Donald Trump più che un augurio per la vittoria elettorale suona come un monito. Alla richiesta di “rispetto reciproco, coesistenza pacifica e cooperazione win-win”, il “nuovo” inquilino della Casa Bianca si appresta a rispondere con dazi del 60% sul Made in China e altre limitazioni commerciali che rischiano di alzare notevolmente le “recinzioni” introdotte dalla strategia del “piccolo cortile” di Joe Biden. Allo stesso tempo, l’imprevedibilità nonché la predisposizione di Trump al compromesso offrono opportunità strategiche per Pechino, ormai disilluso sul futuro delle relazioni con gli Stati Uniti a prescindere dal presidente in carica. È quanto spiega in un’intervista a Ilfattoquotidiano.it Zeno Leoni, ricercatore in Studi strategici presso il King’s College London e docente al Joint Services Command and Staff College della Defence Academy of the United Kingdom, che ha appena pubblicato il volume L’ascesa della Cina: Un dilemma per gli Stati Uniti (Carocci Editore, 16 euro).

Trump ha anticipato l’arrivo di nuove tariffe e ritorsioni commerciali che potrebbero rendere questo secondo mandato persino più turbolento per la Cina, soprattutto considerato lo stato non ottimale dell’economia cinese, compromessa dalla bolla immobiliare e dal debito delle amministrazioni locali. Allo stesso tempo va detto che negli anni trascorsi Pechino si è attrezzata per rendere la propria economia più autosufficiente, soprattutto nel settore tecnologico. Qual è la sua previsione?
Come ricordato da Xi Jinping durante il suo discorso per il 75esimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese, Pechino prevede “mari agitati” nei prossimi anni. Questo fa eco a un messaggio ricorrente fra le élite cinesi e della Costituzione del partito: “C’è ancora molta strada da fare”. Da ciò se ne deduce che la Cina non è ancora pronta ad affrontare ulteriori restrizioni commerciali e che preferirebbe affrontare un’altra amministrazione Trump magari tra dieci anni, ma non in questo momento delicato. Questo potrebbe portare a nuovi stimoli per il mercato interno, il quale resta centrale nella strategia di autosufficienza nel lungo periodo.

Sul fronte diplomatico l’America First potrebbe costare nuovamente qualche tensione con gli alleati asiatici. Per non parlare delle recenti affermazioni in merito a Taiwan. Pensa veramente che Trump, come minacciato, ridurrà il supporto militare a Taipei? Se sì, questa postura, che segnerebbe una netta inversione rispetto al primo mandato, potrebbe favorire una distensione con Pechino?
Fare previsioni sull’approccio dell’ amministrazione Trump per quanto riguarda la Cina è difficile perché, in generale, Trump vuole perseguire una strategia jacksoniana, ovvero di isolamento o quanto meno di impegno selettivo e cauto su crisi internazionali. Allo stesso tempo però, l’amministrazione Trump come quella di Biden riconoscono la Cina come principale avversario degli Stati Uniti – come si può leggere nelle rispettive strategie di sicurezza nazionale. La mia previsione è che Trump magari farà anche arrabbiare qualche alleato in Asia, come successo durante il suo primo mandato con il Giappone e l’Australia. Ma non potrà sottrarsi al contenimento della Cina. Non lo fece neanche durante il suo primo mandato. Da quel momento, a Washington si è creato un consenso bipartisan sul fatto che serve una politica più intransigente verso la Cina.

In ogni caso, se dovessero diminuire i finanziamenti per Taiwan, rimarrebbe aperta la questione più importante, quella del Mar Meridionale Cinese, snodo del commercio globale di importanza equivalente al Canale di Suez. Inoltre, non c’è ragione di credere che programmi come AUKUS, Quad, e Squad, la più recente collaborazione militare tra Usa, Giappone, Australia e Filippine, vengano smantellati. AUKUS è un impegno trentennale che costa poco agli USA, pagano gli australiani, e il Quad fu ravvivato da Trump stesso.
Tuttavia, eventuali tensioni fra Usa ed Europa potrebbero indebolire la coesione occidentale seguita all’invasione dell’Ucraina. Questo, sicuramente, porterebbe molti Stati europei a non voler sostenere gli Usa in uno scontro su Taiwan.

Trump non ha mancato di esternare la propria ammirazione per Putin. Ha anche dichiarato di voler mettere fine alla guerra in Ucraina in 24 ore. Quanto è realistico immaginare un riavvicinamento tra Usa e Russia? Pensa che la Cina sia preoccupata da questa eventualità?
In alcuni ambienti governativi americani, già dall’era Obama, c’è stata un’idea (o fantasia?) di riavvicinarsi alla Russia. Ci provò la Clinton con il bottone rosso del “reset” e Trump strizzando l’occhio a Putin nel suo primo mandato. Lo hanno sostenuto anche analisti come Henry Kissinger e John Mearsheimer. È una possibilità da considerare in un futuro, però forse un futuro lontano. Tuttavia, sarebbe una rivoluzione rispetto alla politica Nato degli ultimi trent’anni, e non basta fermare la guerra in Ucraina per risanare la relazione con Mosca. Inoltre, per la cronaca, va ricordato che Trump durante il suo primo mandato aumentò i fondi per la European Deterrence Initiative di tre volte dopo la presa della Crimea. La Cina non ama la Russia, ma è ovvio che un’alleanza tra Stati Uniti e Russia contro la Cina rappresenterebbe uno scenario da incubo per Pechino.

Trump ha promesso dazi un po’ per tutti, anche per l’Ue. Durante il primo mandato questo approccio protezionistico ha parzialmente giovato ai rapporti tra Pechino e Bruxelles. Le cose da allora però sono molto cambiate soprattutto a causa dell’ambiguità cinese rispetto alla guerra. Cosa c’è da aspettarsi in futuro per le relazioni tra Cina e Ue?
È possibile pensare ad un disgelo rispetto agli ultimi anni, ovvero in confronto alle tensioni che hanno seguito le notizie sui campi di concentramento in Xinjiang, la gestione del Covid-19 e il posizionamento della Cina rispetto alla guerra in Ucraina. Potrebbe affermarsi con più forza la linea Macron, cioè quella di interagire con la Cina facendo valere gli interessi europei e non americani. Tuttavia, l’Ue è spaccata, con Paesi baltici e dell’Est, ma anche l’Italia, che continuano a seguire Washington rispetto a Bruxelles da un punto di vista della politica estera e militare.

Se i precedenti sono di insegnamento, l’amministrazione Trump 2.0 potrebbe portare a nuovo disimpegno americano dalle organizzazioni/accordi internazionali. Stavolta questo scenario vedrebbe la Cina nella posizione di poter rivendicare con più forza il ruolo di “player responsabile” dopo aver passato gli ultimi anni a consolidare partenariati strategici nel Sud globale. Nel suo libro tuttavia spiega come non necessariamente il protagonismo internazionale di Pechino sia finalizzato al raggiungimento di obiettivi egemonici, come saremmo tentati di pensare. Può spiegarci perché? Quanto pesa questo “fraintendimento” nei rapporti con Washington?
Molti sono i dossier in cui la Cina ha avuto l’opportunità di esercitare un ruolo di leadership, ma non lo ha fatto: le istituzioni e il dibattito sui cambiamenti climatici, la guerra in Ucraina, il conflitto fra Israele e Palestina e la pandemia causata dal Covid-19. Né, per ora, la Cina ha cercato di sostituire gli Stati Uniti per quanto riguarda la sicurezza delle cosiddette strozzature globali.

Premesso che parliamo di situazioni molto diverse l’una dall’altra, possiamo individuare due ragioni principali: da una parte la Cina continua ad essere un Paese in via di sviluppo, con molti punti di forza ma anche con debolezze strutturali. Debolezze di cui le élite cinesi sono pienamente consapevoli. L’aspetto militare è emblematico: l’Esercito di Liberazione Popolare non ha una proiezione strategica al di là dello stretto di Malacca e non potrebbe affrontare un rivale come gli Stati Uniti a quelle distanze.
Ci sono però anche aspetti “culturali” dietro a queste scelte: storicamente l’establishment cinese ha dato priorità agli equilibri interni. Ma c’è anche un attento spirito di osservazione delle conseguenze, spesso negative, che l’egemonia americana ha avuto sugli Stati Uniti stessi. Essere una grande potenza comporta anche grandi responsabilità. L’occidente e soprattutto gli Stati Uniti però, anche in base alla loro storia, sono giunti alla conclusione che l’ascesa della Cina non sarà diversa dalle egemonie spagnole, olandesi, britanniche o americane e che una Cina più ricca e potente equivale a una Cina più imperialista. C’è anche un fraintendimento sui tempi di questa eventuale ascesa imperiale. La Cina al momento non solo non ha una proiezione strategica, ma neanche alleanze che potrebbero portare a un modello simile a quello americano. Ovviamente, la deterrenza si fa pensando a lungo termine, ma non bisogna esagerare. Sennò si ottiene il risultato opposto: una Cina più aggressiva e vicina alla Russia.

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