Quella che doveva essere una pura formalità in nome di un accordo di non belligeranza nella nuova maggioranza al Parlamento europeo ogni ora che passa si sta trasformando nella più grave crisi politica che l’Europa rischia di dover affrontare. Le audizioni dei componenti della nuova squadra di Ursula von der Leyen sono filate lisce, oltre le previsioni, fino al 12 novembre, quando all’esame delle commissioni parlamentari si sono sottoposti i presidenti esecutivi. Ad attivare l’innesco della bomba che sta per esplodere dentro ai palazzi di Bruxelles è stato il Partito Popolare Europeo che, pressato dalla componente spagnola, ha messo il veto sulla commissaria socialista voluta da Pedro Sanchez all’Ambiente, Teresa Ribera, con la prevedibile reazione dei Socialisti e Democratici (S&D): veto sulla vicepresidenza a Raffaele Fitto. Tutti ora invocano l’intervento della presidente della Commissione Ue affinché rimetta insieme i pezzi di una maggioranza che, a detta dei Socialisti, “non c’è più”. Ne va della credibilità e della stabilità dell’Europa. Ne va dell’agenda di Bruxelles. Ma soprattutto del futuro della leader tedesca: quella che è appena iniziata è la battaglia per salvare la poltrona al 13esimo piano di Palazzo Berlaymont.

Tutti invocano Ursula
Tutti, adesso, invocano il nome di Ursula von der Leyen. Mentre Ppe e Socialisti si lanciano accuse a vicenda da una parte all’altra della Plenaria di Bruxelles, i liberali di Renew, anche loro membri della cosiddetta nuova maggioranza Ursula, chiedono che la presidente prenda in mano la situazione e individui al più presto una exit strategy che permetta di arrivare al voto del 27 novembre a Strasburgo con una squadra condivisa e che inizi i propri lavori già dal 1 dicembre. Un tentativo è già stato fatto il 13 novembre quando ha convocato i capigruppo di Popolari, Socialisti e Renew nel tentativo di frenare la deriva guerrafondaia delle ultime audizioni. Da quanto apprende Ilfattoquotidiano.it da fonti del Parlamento Ue, il meeting è andato malissimo: il Ppe ha deciso di non togliere sostegno ai Populares spagnoli nella loro guerra per far saltare la nomina della pasdaran del clima Teresa Ribera, cercando così di compromettere anche la tenuta del governo Sanchez, e di conseguenza S&D ha risposto alla rottura del patto mettendo il veto sulla vicepresidenza a Fitto che avevano dovuto ‘ingoiare’ in nome di un’intesa tra forze europeiste.

Da quanto si apprende, von der Leyen proverà di nuovo a dialogare con i capigruppo. Non è chiaro quale sia l’offerta da mettere sul tavolo, né se abbia effettivamente qualcosa di così irrinunciabile per le famiglie europee da convincerle a tornare sui loro passi. Di sicuro la leader tedesca non lascerà niente d’intentato perché da questa squadra di commissari potrebbe dipendere il suo futuro alla guida della Commissione.

Il tempo stringe
Quelle che arrivano da Bruxelles, però, non sono buone notizie. Per il 19 novembre era convocata la conferenza dei presidenti delle singole commissioni parlamentari incaricate di valutare i commissari. Il personale europeo è stato però informato venerdì 15, come ha potuto verificare direttamente Ilfattoquotidiano.it, che “a causa della situazione generale, la conferenza straordinaria dei presidenti di commissione è stata rinviata” senza una nuova data. Un bel problema perché il giorno successivo, il 20 novembre, dovrebbe riunirsi la conferenza dei capigruppo che annuncerà le decisioni su ogni singolo commissario europeo designato. E il regolamento del Parlamento europeo parla chiaro: “Le lettere di valutazione delle commissioni sono trasmesse entro ventiquattro ore dal termine della procedura di valutazione – si legge – Le lettere sono esaminate dalla Conferenza dei presidenti di commissione e successivamente trasmesse alla Conferenza dei presidenti (o dei capigruppo, ndr). Salvo che decida di chiedere ulteriori informazioni, la Conferenza dei presidenti, previo scambio di opinioni, dichiara chiuse le audizioni e autorizza la pubblicazione di tutte le lettere di valutazione”. Se la Conferenza dei presidenti di commissione, però, non si riunisce, quella dei capigruppo non potrà pubblicare alcuna lettera di valutazione. E di conseguenza, come previsto dal calendario parlamentare, il 27 novembre a Strasburgo non sarà possibile per la Plenaria votare il ‘pacchetto commissione’ che sancirebbe l’effettiva entrata in carica della nuova squadra del Berlaymont.

Si mette male per von der Leyen
Questa ipotesi sarebbe catastrofica per la presidente alla ricerca di un secondo mandato alla guida della Commissione Ue. Da Bruxelles si invitano le parti alla responsabilità. Il commissario agli Affari Economici, Paolo Gentiloni, ha dichiarato che “il mondo non aspetta la Commissione europea. Sono convinto che ci siano le condizioni perché la nuova Commissione entri in funzione come è necessario il 1 dicembre. La nuova Commissione europea avrà molte sfide davanti, tutti siamo convinti che nel contesto che si è creato anche dopo le elezioni americane avere un’Europa unita e salda sia importante e per questo mi auguro che non ci siano ritardi”. La realtà, però, racconta un’altra storia. L’Unione europea è sgretolata su diversi temi, sia tra Stati membri sia all’interno di quel nucleo centrista che la governa dalla sua fondazione. Non a caso, il Partido Popular spagnolo, che aspetta l’audizione di Ribera del 20 novembre all’Assemblea spagnola per sferrare nuovi attacchi contro di lei, non ha alcuna intenzione di mollare la presa sulla ministra socialista fino a quando non si sarà dimessa, paralizzando di fatto l’Ue fino a quando il Ppe deciderà di sostenerlo.

Von der Leyen, quindi, lotta per la sopravvivenza e davanti a sé ha tre diverse strade. La prima è quella di riuscire a ricomporre in extremis la frattura tra Ppe e S&D, convincendo i suoi compagni di partito a prendere le distanze dalla guerra tutta spagnola ingaggiata dai Populares che, comunque, rimangono uno dei partiti nazionali più importanti all’interno della formazione europea. Un risultato del genere difficilmente le permetterebbe di entrare in carica nei tempi stabiliti, ma eviterebbe una crisi politica sanguinosissima, tutta a vantaggio delle formazioni più estremiste che rimangono a osservare tranquillamente il fratricidio europeo. In questo contesto, l’aiuto dei capi di Stato e di governo più influenti, da Macron a Scholz fino a Mattarella, che non a caso ha ricevuto Raffaele Fitto al Quirinale proprio giovedì lanciando così un messaggio a Bruxelles, sarà fondamentale.

La seconda opzione è quella, complicatissima, di un cambio di maggioranza che comporterebbe anche un rimpasto generale di commissari non ancora entrati in carica. Il problema è che questo non può che prevedere un radicale spostamento a destra della nuova Commissione. Spostamento per il quale non sembrano esserci i numeri: una maggioranza composta da Ppe, Renew, Conservatori e Patrioti (sui quali però lo stesso Partito Popolare ha imposto un cordone sanitario) conterebbe 427 europarlamentari su 720. Solo sulla carta però: la presenza dei partiti alleati di Orbán potrebbe scatenare la fuga dei liberali e di una parte del Ppe, riportando il gruppo in minoranza. Ancora più complicata l’idea che vede addirittura il coinvolgimento dei Sovranisti, dei quali fanno parte i tedeschi di Alternative für Deutschland, incompatibili con la Cdu, specialmente a pochi mesi dalle elezioni tedesche, e con gran parte delle formazioni tradizionali.

La terza possibilità è quella che probabilmente si verrebbe a concretizzare se il lavoro diplomatico di von der Leyen non dovesse avere successo: l’accordo va in frantumi insieme a tutti i top jobs, tra cui anche quello riservato proprio a von der Leyen. Una crisi politica senza precedenti nell’Ue alla quale si dovrebbe trovare immediatamente una soluzione. Se a esprimere il presidente di Commissione dovesse essere il Ppe, Manfred Weber tornerebbe in lizza, in una rivisitazione al contrario di ciò che è avvenuto nel 2019, quando come Spitzenkandidaten vide la sua corsa al Berlaymont interrompersi proprio in favore dell’ex ministra tedesca. Il problema è che il suo nome, almeno sulla carta, significherebbe uno spostamento a destra della maggioranza, impossibile per i numeri già elencati. L’alternativa è quella di un ‘governo tecnico‘, col nome di Mario Draghi, sponsorizzato fortemente da Renew in campagna elettorale, che tornerebbe d’attualità. Solo una coincidenza, seppur curiosa, che l’ex presidente del Consiglio abbia avuto un dialogo pubblico proprio col presidente francese, il 14 novembre, in occasione della conferenza sul “futuro della competitività europea” in programma al Collège de France. Tra loro complimenti, abbracci e strette di mano. L’intesa non manca.

X: @GianniRosini

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