Dentro, fuori, di nuovo dentro. La carambola dell’emendamento sul Tfr mostra quanto parte del governo tenga a questa misura. Fondamentalmente un grande favore all’industria del risparmio gestito che obbligherà 10 milioni di lavoratori che già si sono espressi sul mantenere in azienda la loro liquidazione a farlo una seconda volta. In mancanza di un’esplicita pronuncia, da quel momento in poi, i contributi previdenziali verranno automaticamente dirottati verso i fondi pensione.

Di questa misura aveva iniziato a parlare la ministra del Lavoro Marina Calderone già a fine estate. Il nuovo silenzio assenso non era però entrato direttamente nella legge di bilancio. Tuttavia l’idea ha preso la forma di un doppio emendamento (ossia una modifica al testo della manovra presentata dal governo, proposta durante l’iter parlamentare della legge, ndr), uno a firma Lega, l’altro di Fratelli d’Italia. Eppure venerdì scorso entrambi sono stati respinti dalla competente commissione.

Tempo 24 ore e i due emendamenti sono stati riammessi. La ragione? “Recando disposizioni in materia di opzione tra il mantenimento del trattamento di fine rapporto presso il datore di lavoro e il conferimento di quest’ultimo a forme di previdenza complementare, reca un intervento coerente rispetto alle misure in materia di previdenza complementare contenute nell’articolo 28 del disegno di legge”, si legge nella motivazione della riammissione.

Gli emendamenti vengono motivati con la volontà di far capire meglio ai lavoratori veri, o presunti, vantaggi della previdenza complementare. A tal fine il governo metterà a punto una sorta di manualetto con le istruzioni che il datore di lavoro sarà tenuto ad impartire ai dipendenti prima che facciano la loro scelta. Se dovesse passare, e nel caso la pesca a strascico sui 10 milioni di lavoratori che ancora hanno il Tfr in azienda dovesse portare ad un buon risultati, rischiano di entrare in crisi le piccole imprese. Mentre per le aziende sopra i 50 dipendenti i contributi finiscono all’Inps, le più piccole mantengono direttamente questi fondi. Il ridursi di questo flusso di denaro avrebbe un impatto sulla loro situazione finanziaria.

Un minimo di storia. Con la decisione del 1996 di passare gradualmente dal più generoso sistema pensionistico retributivo a quello contributivo, più sostenibile per i conti pubblici, si sono anche poste le basi per consegnare le giovani generazioni ad un futuro di pensioni da fame. Con il contributivo, infatti, un lavoratore percepisce una pensione parametrata ai contributi effettivamente versati nel corso della sua vita lavorativa. Tuttavia in un paese come l’Italia, con stipendi mediamente molto bassi (e quindi anche contributi) ed elevata flessibilità, che si traduce in discontinuità di impiego e “buchi” di versamenti contributivi, il rischio, molto concreto, è quello di trovarsi a fine carriera con la prospettiva di assegni previdenziali di poche centinaia di euro.

Una delle soluzioni pensate per metterci una toppa è stata quella di incanalare il Tfr che si accumula nel corso della vita professionale verso investimenti di vario genere, dai titoli di Stato alle azioni etc. Ciò attraverso fondi pensione aperti o di categoria, a volte gestiti dai sindacati, con vari livelli di rischio che possono essere scelti dal lavoratore. La scommessa è che borse e mercati possano offrire rendimenti superiori a quello della semplice rivalutazione, parametrata all’inflazione, che si applica al Tfr lasciato in azienda. Ma non sempre va così. Nel 2022, anno di alta inflazione e debolezza dei mercati, il Tfr rimasto in azienda ha, come si dice in gergo, ampiamente sovraperformato quello investito sui mercati (Per chi si appassiona alla materia esistono svariati approfondimenti sull’effetto nefasto degli investimenti dei fondi pensione nei capitali delle aziende).

In linea di massima è vero che investire i soldi dovrebbe portare vantaggi in termini di rendimenti, soprattutto in un’ottica di lungo periodo come quella di un lavoratore ad inizio carriera. Soprattutto in protratti periodi di inflazione molto bassa, come accaduto dal 2014 al 2021. Inoltre, se si sceglie la destinazione ai fondi, il datore di lavoro è tenuto ad una compartecipazione nel versamento della quota. Al momento, su circa 20 milioni di occupati che si contano in Italia, poco meno della metà ha optato per i fondi pensione. Altri 10 milioni hanno lasciato il Tfr in azienda. Conferire la liquidazione in un fondo è una scelta definitiva che comporta più vincoli al successivo utilizzo dei soldi.

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