Ho molto rispetto per il giornalista di Repubblica Paolo Berizzi, che da anni vive sotto scorta perché insiste a esplorare le lande barbariche dove si aggirano i nostalgici del nazi-fascismo. Non uso il termine “neo” (fascismo) perché in queste enclaves di una monomania retroversa e tossica, in cui si praticano riti che sarebbero liquidabili come grotteschi e risibili se non risultassero legati a una storia che gronda sangue, di nuovo non c’è proprio un bel nulla.
Dal rimpianto di un duce mascelluto, la cui retorica accompagnata da gestualità gigionesche nascondeva una sostanziale inadeguatezza, diventata rovinosa nel momento in cui affrontava in maniera disastrosa la prova del Secondo Conflitto Mondiale, ai saluti e agli slogan caricaturali che vorrebbero testimoniare identificazione con la pagliacciata trasformatasi in tragedia.
Un branco-macchietta che – tuttavia – mantiene elevati tassi di pericolosità per un aspetto che blocca sul nascere l’attitudine a sorriderne: il culto della violenza, tradotto in pratiche che rendono credibili (e temibili) le minacce di cui Berizzi e la sua famiglia continuano a essere oggetto.
Motivo per cui, nel dibattito di venerdì scorso sull’attuale stato dell’arte della democrazia, in cui ci trovavamo a fianco nello stesso panel, mi sono astenuto dall’esprimere, in maniera più esplicita di una battuta, quello che penso della marmaglia che rovina l’esistenza ai testimoni del tempo che vanno a rovistare in quel ciarpame. Un po’ come è successo al giornalista de La Stampa Andrea Joly, pestato a sangue il 24 luglio scorso da una squadraccia di CasaPound, in quanto colpevole di aver ficcato il naso in una loro adunata torinese.
Ossia, ho evitato di replicare a chi denunciava il rischio per l’Italia di un ritorno al ventennio mussoliniano, accelerato dalla riapparizione di Donald Trump alla Casa bianca. Pericolo che – a mio modo di vedere – viene sbandierato per la pigrizia mentale di concettualizzare minacce profondamente diverse e probabilmente assai più temibili. Perché – diciamocelo francamente – questi picchiatori destrorsi (e magari perfino questi collezionisti di busti del Duce) sono soltanto manovalanza, certamente da contrastare imponendo l’applicazione del codice penale; ma niente più della massa di manovra utile alla conquista del potere dei burattinai. E poi disinnescare una volta ottenuta la cooptazione nel salotto buono (in cui un tal Benito poteva finalmente esibire lo status symbol borghese delle ghette).
Il problema vero è appurare chi sono quelli che stanno dietro a questo revival di destra, alla canea oscurantista, e denunciare le idee che hanno in testa. I progetti perseguiti, che non sono né di destra né di sinistra ma hanno a che fare con ascese sociali per i caporioni (tipo Giorgia Meloni e qualche partner fidato, magari Guido Crosetto, non certo la marmaglia della sua Corte dei Miracoli); soprattutto con l’ulteriore estorsione di ricchezze da parte delle plutocrazie locali e internazionali, intenzionate a estorcere risorse da un mondo colonizzato; dalle famiglie ex-Fiat alla BlackRock (e i suoi 10mila miliardi di dollari da investire), al riccone Elon Musk.
I cosiddetti “mercati”, ovvero nient’altro che i patrimoni, accumulati grazie all’evasione fiscale garantita da ceti politici subalterni, che si riproducono finanziando a elevati tassi di interesse i deficit di quegli stessi Stati che, con la loro infedeltà in quanto contribuenti, si sono premurati di ridurre sul lastrico. Un mondo che dalle nostre parti pregia grand commis tipo Mario Draghi; a cui la sventrata Elly Schlein fa ricorso per riceverne illuminanti e disinteressati consigli! La fanciulla icona di un’altra retroversione: la sinistra emigrata nel magico regno del buonismo.
Per cui dobbiamo assistere ai patetici dibattiti sul come si dovrebbe porgere l’altra guancia alla violenza verbale della manovalanza meloniana e della stessa puffetta mannara, che in questo modo ottengono il duplice risultato di conquistare la scena elettorale e creare diversivi il più beceri possibile sull’evoluzione del potere reale in atto. Per cui, orchestrate dalla Gruber, le anime belle di Pierluigi Bersani e Monica Guerzoni del CorSera si premurano di riproporre il mantra del veltronismo sconfittista di un Galateo politico da educande, sommerso e ridicolizzato da insulti e irrisioni politicamente scorrette dei vari mazzieri mediatici dell’oscurantismo incombente. Come Mario Sechi o il giocatore delle tre carte Italo Bocchino con il suo vestitino da sposo di paese.
Sicché fa specie che perfino un anziano piccista quale Bersani, in overdose da bonomia paciosa, dimentichi che in altri tempi la lingua più biforcuta della politica nazionale era quella di Palmiro Togliatti, detto “il Migliore”; il supremo maestro del sarcasmo si chiamava Fortebraccio, corsivista dell’Unità che fu.
[In foto: polizia schierata per bloccare il corteo antifascista a Bologna, 7/11]