di Pasquale Aiello, Presidente Ente Nazionale per la Trasformazione Digitale

La trasformazione digitale… quella grande, scintillante promessa che ci avrebbe semplificato la vita e reso tutti, di colpo, “smart”. A sentir parlare di intelligenza artificiale e rivoluzioni tecnologiche sembra quasi che sia sufficiente premere un pulsante perché tutto diventi facile e intuitivo. Eppure, l’analfabetismo funzionale digitale continua a crescere, creando una nuova era di “inefficienza artificiale”, un’epoca in cui la tecnologia c’è, ma la comprensione… beh, decisamente no.

Molti sono convinti che saper navigare su internet o usare le app del cellulare sia sinonimo di competenze digitali. Invece, il mondo moderno ci insegna che tra il sapere fare tap su uno schermo e il capire cosa si sta facendo c’è una bella differenza. Anche perché, nella maggior parte dei casi, queste “nuove” competenze digitali sembrano limitarsi a saper scorrere all’infinito sui social. Così, mentre la tecnologia avanza, ci troviamo in una situazione in cui il progresso accelera, ma il buon senso e la capacità di utilizzare questi strumenti restano, evidentemente, fermi.

Uno dei maggiori successi della tecnologia contemporanea è la sua capacità di renderci dipendenti. Le persone affidano ciecamente le loro decisioni agli algoritmi e ai dispositivi, come se la tecnologia fosse infallibile, come se Maps non ci avesse mai guidati in mezzo al nulla. Certo, perché riflettere criticamente sulle informazioni digitali quando possiamo seguire fiduciosamente il nostro assistente virtuale? Peccato solo per il piccolo dettaglio che usare la tecnologia senza capirla alla lunga tende a rendere la vita un po’ più complicata e a farci sentire più smarriti, anziché illuminati.

La mancanza di competenze digitali non si limita ai problemi personali; il suo impatto è profondamente radicato anche nelle aziende e nelle istituzioni:

Economia: le aziende puntano tutto sulla “digital transformation” per poi scoprire che nessuno ha capito come funziona davvero il nuovo software gestionale, con effetti che più che trasformare digitalmente portano ad un paralizzante panico tecnologico.

Sociale: la scarsa educazione digitale alimenta il caos informativo. E così, mentre la tecnologia dovrebbe avvicinarci al sapere, finiamo per dibattere se gli ologrammi della chat siano “reali” o meno.

Politica: le pubbliche amministrazioni amano dire che investono nel digitale, ma basta guardare alla burocrazia digitale di certi portali per capire che le competenze dei cittadini sono il problema minore.

Per combattere l’inefficienza artificiale servirebbero interventi mirati, ma la volontà sembra latitare. Se si volesse davvero cambiare, si potrebbe:

– Investire nella formazione vera: non solo corsi di un’ora in cui si spiega che l’IA è “il futuro”, ma insegnare concretamente come comprendere le tecnologie.

– Educazione al pensiero critico: non guasterebbe un pizzico di scetticismo nella gestione dei dati, ma forse è un concetto troppo audace.

Collaborazioni pubblico-privato: pare che, con il coinvolgimento di aziende e amministrazioni, persino un portale di prenotazione online possa funzionare senza mandare in crisi un’intera popolazione.

L’inefficienza artificiale, in fondo, è il prodotto di un amore cieco, un credo, per la tecnologia, che funziona come una specie di confortevole e-mail non letta: tutti ne parlano, pochi l’hanno effettivamente capita. Probabilmente, ci sarà un giorno in cui davvero sapremo sfruttare appieno questi strumenti, ma finché ci limitiamo a “digitalizzare” senza comprendere, la strada verso un’efficienza reale sembra ancora piuttosto lunga.

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