Non che con Biden sia andata così male, ma, senza dubbio, per l’industria petrolifera, la vittoria di Trump è una specie di bingo. Il prossimo presidente è solito gridare ai comizi “Drill, baby, drill!”, trivella ragazzo, trivella. Uno dei punti nell’agenda di Trump è il ritiro, un’altra volta, dall’Accordo di Parigi con cui i paesi sottoscrittori si sono impegnati a contenere l’incremento della temperatura globale. Forse, per la prima volta nella storia, potremmo avere un presidente più ultrà degli idrocarburi degli stessi petrolieri. Persino il capo di Exxon Mobil,Darren Woods ha suggerito di ponderare meglio l’uscita dall’intesa.

Lo scorso maggio, presso la residenza di Trump a Mar-a-Lago, Florida, si era svolta una cena con una ventina di dirigenti dei gruppi petroliferi americani. Tra una portata e l’altra, il presidente-eletto aveva un miliardo di dollari di donazioni per sconfiggere Biden, promettendo in cambio di tutto e di più, a cominciare da deregolamentazione e nomine gradite. Ad organizzare l’incontro era stato il governatore del Nord Dakota Doug Burgum, ora messo a capo del dipartimento del Interni, a cui compete, tra l’altro la gestione di territori federali e parchi naturali.

Con queste promettentissime premesse, i petrolieri americani hanno comunque già sottoposto all’inquilino entrante della Casa Bianca una road map per il settore. Un piano in cinque punti, elaborato dall’American Petroleum Institute. Il documento chiede innanzitutto di aumentare i limiti per le emissioni di Co2 delle automobili, rinnegando i valori fissati da Biden che, secondo i petrolieri, sono un immenso regalo ai veicoli elettrici (chissà cosa ne penserà il fidato consigliere Elon Musk, patron di Tesla).

Altro punto è l’incremento dei permessi di esportazioni di gnl, il gas liquefatto che arriva via nave nell’affamata Europa. Poi regole meno severe sul fracking e lo shale oil, gli altamente inquinanti sistemi di estrazione di petrolio dalle rocce e dalle sabbie bituminose, che ha consentito agli Usa di divenire i primi produttori globali di greggio. Oggi gli Stati Uniti producono quasi 18 milioni di barili al giorno di petrolio, 5 milioni in più dell’Arabia Saudita (che rimane però il primo esportatore al mondo) e 7 milioni in più della Russia. Sono anche i primi produttori di gas (980 miliardi di metri cubi l’anno), davanti a Russia ed Iran.

Non che per l’oil&gas il quadriennio Biden sia stato una sofferenza, si diceva. Anzi, i permessi di trivellazione sono fioccati e gli Usa sono oggi i primi produttori al mondo di gas e petrolio. Una cuccagna, e una pioggia di profitti record, con i prezzi dal gas tuttora ben oltre la media storica. Un’ Europa privata di gran parte dei flussi che arrivavano dai gasdotti russi ha fatto ricorso alle importazioni del più costoso gnl per compensare la mancanza .E la gran parte di queste navi sono arrivate dagli Stati Uniti, oltre che dal Qatar e, in una sorta di cortocircuito, dalla stessa Russia.

In campagna elettorale, Trump ha più volte affermato di voler accrescere la produzione di petrolio, al fine di far scendere il costo della benzina. Cosa, in realtà, non particolarmente gradita ai petrolieri. In un discorso tenuto lo scorso 5 settembre all’Economic Club di New York, ha detto che se fosse presidente “la produzione di petrolio sarebbe quattro volte quella attuale“. L’uomo non difetta di ambizione. Gli stessi petrolieri, in verità, sono tiepidi su questo punto. Troppo petrolio sul mercato non fa bene ai profitti, come insegnano le complicate trattative tra i paesi Opec per fissare la “quantità perfetta” che permette di aumentare al massimo gli incassi senza far scendere la domanda per il costo eccessivo.

Non tutto l‘Inflation Reduction Act, il maxi piano di Biden che contiene anche ingenti fondi per la transizione verde, verrà gettato alle ortiche. Alcune disposizioni piacciono anche ai petrolieri. Tra questi il credito d’imposta concepito per incoraggiare gli investimenti nella cattura e nello stoccaggio del carbonio, oltre agli incentivi per la produzione di idrogeno pulito (tutti processi che avvengono soprattutto nelle raffinerie).

E veniamo a noi, intesi come Unione europea. Il gruppo di esperti messo in piedi per capire come interfacciarsi con la nuova amministrazione Usa e gestire la patata incandescente dei minacciati dazi, avrebbe ipotizzato anche di sfruttare proprio il gnl. L’idea, che piace molto ad Ursula von der Leyen, è apparentemente semplice: comprare meno gas liquido dalla Russia e di più dagli Stati Uniti per blandire Trump. C’è un problema. Non è l’Ue a comprare il gas che viene usato in Europa ma le singole aziende su cui Bruxelles non ha formalmente alcun controllo.

Certo, la Commissione può muovere le sue leve politiche, come regole più restrittive o, persino, embarghi. Ma sinora non lo si è fatto nella consapevolezza che l’economia europea non è in grado di sopportare una completa interruzione del flusso di idrocarburi provenienti da Mosca. Non solo, accrescere ulteriormente la dipendenza energetica dagli Usa, ridurre la diversificazione dei fornitori, significa dare a Washington ancora più potere di condizionamento sulle scelte, di qualsiasi tipo, europee. Non una grande idea in vista di una presidenza da cui ci si attendono sorprese. Tendenzialmente non belle.

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