“Quando il 20 luglio 1990 entrai nel suo ufficio, Giulio Andreotti mi invitò a sedere sul divano, chiedendomi con una quasi impercettibile contrazione delle labbra: ‘Gradisce un caffè?’. Devo confessare che in un baleno mi passarono per la mente tutti i caffè della storia d’Italia che avevano avuto un esito infausto. Ma risposi subito: ‘Sì, grazie’. Quel caffè invece sarebbe andato di traverso al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, già in rapporti politici tesi con Andreotti”.
L’incontro con Andreotti – Sono trascorsi oltre 50 anni dalla strage neofascista di Peteano, tre carabinieri uccisi nel maggio 1972 dall’esplosione di un’auto che gli ordinovisti friulani avevano imbottito di esplosivo. Sono passati più di trent’anni dalle inchieste veneziane che portarono per la prima volta sul fronte del terrorismo nero a scoprire esecutori e autori di depistaggi per uno degli attentati della “strategia della tensione”. Ma soprattutto sono passati 32 anni da quel giorno in cui un giovane magistrato, il giudice istruttore veneziano Felice Casson, fece il suo ingresso a Palazzo Chigi. Aveva molte cose da chiedere al presidente del Consiglio democristiano, per questo bevve quel caffè. Ne uscì con la conferma che sarebbe riuscito a svelare quello che oggi chiama “il segreto meglio conservato d’Italia: l’esistenza di una struttura clandestina denominata Gladio-Stay Behind”.
Visto che la memoria non può andare in prescrizione, il giudice di allora (poi senatore per tre legislature) ha deciso di raccontare l’inchiesta condotta nel Tribunale di Rialto, in conflitto con molti dei suoi colleghi, e che – partendo dalla strage di cui nessuno sembrava voler scoprire i colpevoli – portò ad un terremoto politico legato agli accordi segreti dell’Italia con gli americani, dall’inizio della Guerra Fredda, in poi. Nemmeno il Parlamento aveva mai saputo di quella rete paramilitare, con dotazione di depositi di armi ed esplosivi, pronta ad intervenire in caso di invasione delle truppe del blocco sovietico.
Un mistero italiano – Casson è l’autore del libro “La strage di Peteano”, inserito nella collana “Terrorismo Italiano” che RCS Mediagroup pubblica nelle collane della Gazzetta dello Sport. È un viaggio nell’Italia dei depistaggi, con magistrati, carabinieri, poliziotti, politici e uomini dello Stato impegnati a impedire la scoperta della verità. L’esistenza di Gladio costituisce il capitolo più eclatante e Casson lo ripercorre in prima persona. Aveva già chiesto ad Andreotti lumi sui depositi disseminati nel Carso, di cui aveva trovato traccia, e che considerava “presuntivamente un punto di connessione tra servizi segreti ed eversori di destra”. “Il 2 luglio il premier mi rispose che non potevo vedere personalmente i fascicoli, fornendomi però alcune risposte che ritenni confuse e incoerenti rispetto a quanto risultava agli atti. Alla mia contestazione, che richiamava la non opponibilità del segreto di Stato, decise di cambiare atteggiamento e fissò l’incontro del 20 luglio”.
Siamo nel cuore di uno dei misteri d’Italia, con annesso uno scontro istituzionale ad altissimo livello. “Quel giorno fui autorizzato ad accedere agli archivi dei servizi segreti di Forte Boccea, con il conseguente disvelamento documentale di una struttura clandestina denominata Gladio-Stay Behind”. Ma perché il caffè andò di traverso a Cossiga? “Il presidente della Repubblica rivendicò con veemenza le origini e la storia di quella struttura, facendo pure un po’ di confusione con un’altra organizzazione cui avrebbe partecipato in armi da giovane. Ma alla mia richiesta di disponibilità, attraverso la sua segreteria, a essere sentito in merito (non fu una formale citazione, a dispetto delle strumentali critiche) andò su tutte le furie. E vietò al Csm anche solo di discutere del caso ‘Cossiga-Casson (Gladio)’”.
Gladio – In realtà il via libera di Andreotti fu selettivo. “Autorizzò l’accesso agli archivi della sola VII divisione (ex reparto R-S) e non a quelli della prima divisione (ex reparto D), competente su fatti di terrorismo. Inoltre, dal 20 luglio 1990 (in alcuni casi già a giugno) iniziò un saccheggio degli archivi, con la distruzione di una marea di documenti, relativi soprattutto alle persone reclutate, ai quaderni dei gladiatori e ai Nasco, ossia i nascondigli-depositi di esplosivi e armi”. In ogni caso furono trovate le prove “di una struttura che non era della Nato, ma figlia di un accordo tra la Cia e il Sifar (come confermarono dal quartier generale Nato di Bruxelles e lo stesso segretario generale del Quirinale nel 1991)”. Sicuramente i dati poi forniti ufficialmente da Andreotti su 622 gladiatori e 139 depositi-nasco erano errati, eppure Casson documentò che “ai compiti iniziali di struttura anti invasione, ben presto si affiancarono quelli di spionaggio e di controllo dell’opposizione sociale e politica”. Tre sentenze hanno poi “messo in collegamento Gladio con Peteano”, confermando che si erano voluti coprire gli autori (Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini), oltre ai componenti di Ordine Nuovo in Friuli, in ossequio alla Strategia della tensione e per tutelare la rete clandestina voluta dalla Cia in Italia.
La falsa pista rossa e quella gialla – Casson si toglie parecchi sassolini nei confronti di colleghi ex magistrati. Prima della pista “nera” su Peteano, ci fu quella del terrorismo rosso e poi il coinvolgimento di sei balordi, accusati e processati ingiustamente (pista “gialla”). Per aver sostenuto questo filone, nel 1978 erano finiti a processo (a Venezia) il procuratore di Gorizia Bruno Pascoli, e i carabinieri Dino Mingarelli e Antonino Chirico. “A Venezia – scrive Casson – la macchina depistante si rimise rapidamente in moto. Il procuratore generale era stato ‘in precedenza sensibilizzato’ e il procuratore capo Carnesecchi ‘molto riservatamente’ aveva dato un suggerimento a Mingarelli (imputato!) per avere ‘la possibilità di muoversi con maggiore forza’”.
Casson ricorda un giovanissimo Carlo Nordio: “Per il processo del 1978 venne creato un collegio giudicante ad hoc, con l’esclusione dei presidenti ordinari di sezione e con la scelta di due giovani magistrati (un civilista e Carlo Nordio, futuro pm e dal 2022 ministro della Giustizia scelto dagli eredi storici dell’Msi). Illuminante il commento girato allora da Venezia al comando generale (dei carabinieri, ndr): ‘Scelta molto oculata… l’epilogo del processo non dovrebbe ora dar luogo a spiacevoli sorprese’. Come in effetti in quell’ottica avvenne”. Ci fu una pioggia di assoluzioni.
L’incarico a Casson – Dal 1980, al suo primo incarico, Casson fu affidato il fascicolo di Peteano. “Mi dissero che era un tale casino che ormai non c’era più nulla da fare e andava semplicemente chiuso: questo era il coro insistente al palazzo di giustizia di Rialto. Mi convinsi invece che tutto era ancora da fare”. Scoprì le responsabilità di Cicuttini e Vinciguerra. Il primo era il telefonista che aveva indicato ai carabinieri dov’era l’auto-trappola. “Era segretario della federazione missina del suo paese. Per questo motivo fu aiutato finanziariamente da Giorgio Almirante, segretario nazionale, per potersi sottoporre a intervento chirurgico alle corde vocali in Spagna, dove si era rifugiato”. Almirante aveva fatto pagare 34.650 dollari a Cicuttini per l’intervento, ma il terrorista li usò per comprarsi una casa in Spagna dove era latitante. Il capo della destra italiana, imputato di favoreggiamento da Casson, se la cavò con l’amnistia.
Il finimondo – In tempi in cui si discute dell’indipendenza dei magistrati, Casson ricorda: “Quando feci arrestare l’ex prefetto di Gorizia Vincenzo Molinari e un vicequestore, al palazzo di giustizia di Venezia successe il finimondo. Da Roma chiamavano tutti per sapere. Certe cose per loro erano inconcepibili. Non si dovevano fare”. Idem quando arrestò i carabinieri Mingarelli e Chirico con accuse di depistaggio (bossoli di pistola usati nella strage). “Si scatenò l’inferno. I ‘procuratori’ serenissimi persero la testa e accusarono il capo dell’ufficio di essere incapace e inefficiente, perché non sapeva controllare i suoi giudici. Fortunatamente allora il giudice istruttore era davvero indipendente. Tenni botta, ma non fu per niente facile”. Un esempio? “Dal giorno successivo, senza dirmi nulla, scomparvero i carabinieri della scorta che quotidianamente mi accompagnavano in ufficio”. A Venezia “non avevano gradito che un pivello avesse riaperto il caso (non ascoltando i loro consigli a chiudere), indagando e incriminando a destra. Tutto ciò scatenò i vertici giudiziari lagunari con ripetute proposte di azioni disciplinari e trasferimento d’ufficio nei miei confronti, perché ‘incompatibile con Venezia’. Richieste però bloccate dal CSM nel 1987”.
Il risultato di tanto lavoro? “La condanna definitiva è arrivata per i responsabili della strage e per gli organizzatori di banda armata, per il trio di carabinieri depistatori beccati con le mani in pasta. Invece, per vari altri reati, sono stati oltre 20 gli imputati miracolati da prescrizione e oltre dieci quelli amnistiati, nessuno dei quali ha rinunciato al beneficio. Anzi, Almirante ne ha invocato l’applicazione immediata e riservata in camera di consiglio”.