Si chiama Vincenzo Pipino, lo chiamavano il ladro gentiluomo ed è il protagonista dell’ultima inchiesta del settimanale Giallo sulla scomparsa di Emanuela Orlandi
Intervistato per Giallo, Vincenzo Pipino potrebbe essere stato protagonista, senza saperlo, di un passaggio cruciale del sequestro di Emanuela Orlandi. Il ladro veneziano che operava senza armi né violenza, e dedito perlopiù al furto di opere d’arte, ha scontato la sua pena e a 81 anni è un uomo libero. Originario della Giudecca, viene da una famiglia molto povera, primo di cinque figli. A sei anni, venne espulso di scuola per aver rubato una mela ad un suo compagno di classe e da lì iniziò, a quanto pare, la sua carriera criminale. Ha messo a segno circa tremila furti e rubato di tutto, persino un dipinto di Canaletto da Palazzo Giustiniani, poi restituito al proprietario. Negli anni ’70, Pipino conobbe Enrico Nicoletti, in un autosalone lungo la Casilina di proprietà di quest’ultimo, indicato come il cassiere della Banda della Magliana. Fu Nicoletti a far conoscere a Pipino Enrico de Pedis, considerato a capo della fazione testaccina della banda e più volte tirato in ballo nella storia della scomparsa di Emanuela Orlandi da testimoni e magistrati.
Il passaporto
Il ladro gentiluomo era già amico di Sabrina Minardi che in quegli anni era l’amante di de Pedis. Entrato in confidenza con Pipino, “Renatino” gli chiese un passaporto di una ragazza veneta, di Mestre. Un passaporto rubato e scaduto da consegnare, insieme alla foto della ragazza da posizionare sul passaporto, a un tale “testone”, nome in codice di un sodale di de Pedis all’interno dei Carabinieri. Il testone era un maresciallo che operava per conto dei servizi segreti. Ecco cosa riporta oggi Giallo, da un’intervista a Pipino: “Fu il testone a spiegarmi che la ragazzina della fototessera che gli avevo lasciato per modificare il passaporto era Emanuela Orlandi. Seppi che serviva per trasferirla a Londra”. Pipino raccontò tutto anni fa, quando era detenuto a Santa Maria Maggiore, ad Arnaldo La Barbera, super poliziotto che negli anni ’70 era stato a capo della Squadra Mobile di Venezia. Dopo, Pipino ha raccontato tutto nei suoi due libri di memorie ma non è stato mai chiamato a testimoniare.
Le stragi di mafia e il caso Orlandi
Questa storia del passaporto era già venuta fuori nel 2012, pochi giorni dopo la riesumazione del corpo del boss Enrico de Pedis, che era stato tumulato (come venne fuori tra lo sgomento generale) nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare che era anche sede della scuola di musica da cui scomparve Emanuela Orlandi. Da un vecchio articolo del 2012 del Mattino di Padova, viene fuori un segmento di questa storia davvero inquietante in cui il mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi si intreccia alle stragi di Palermo del ’92. Si legge dal quotidiano: “Certo è che i pubblici ministeri di Caltanissetta che stanno indagando sulle stragi di Via d’Amelio e Capaci ed in particolare sul depistaggio che provocò la morte di Paolo Borsellino e la sua scorta, credono a ciò che Pipino ha riferito loro, tanto da incriminare tre dirigenti della Polizia per aver costruito insieme ad Arnaldo La Barbera, nel frattempo deceduto ma all’epoca a capo delle indagini, il falso pentito Vincenzo Scarantino”. In pratica, come si legge dal Mattino, Pipino disse ai magistrati siciliani che indagavano sulle stragi del ’92 che La Barbera lo aveva non a caso rinchiuso nella stessa cella di Scarantino per poi minacciarlo: se non gli avesse detto tutto ciò che Scarantino gli diceva, lo avrebbe incriminato pe quel passaporto rubato e dato alla Magliana. Ma la domanda allora è: come faceva, La Barbera, a sapere di quel passaporto già allora? Nota a margine: il maresciallo era legato anche agli 007 ed era sui libri paga del Sisde, il suo nome in codice era “Catullo” (fonte: Il Mattino di Padova).
Le ultime dichiarazioni di Pipino
Oggi, a distanza di molti anni, è lo stesso Pipino a fare luce su questa storia, come ci racconta il direttore di Notte Criminale, il vicentino Alessandro Ambrosini, esperto sia di criminalità romana che di “mala del Brenta”. Ci spiega Ambrosini: “Pipino non ha mai visto la foto della ragazza che avrebbero poi messo sul passaporto da falsificare. In ambito criminale, se ti viene consegnata una busta chiusa è buona regola che il messaggero non la apra. Lui la foto non l’ha mai vista, come mi ha detto”. A riprova di ciò, Ambrosini ha condiviso con noi di Fq il suo scambio epistolare con Pipino, di pochi giorni fa, in cui Pipino scrive:
“Mi sono trovato nel mezzo di due agenti delle forze del disordine. Il primo Arnaldo La Barbera a capo della squadra mobile di Palermo, colui che ha depistaggio l’attentato di Borsellino, il secondo un maresciallo dei carabinieri detto il “Testone”, che ha fatto il famoso passaporto, ambedue appartenenti ai servizi segreti. Solo una cosa mi ha massacrato il cervello: Perché mi è stato chiesto un passaporto di una ragazza veneziana, e non di altre città d’Italia? Poi, sono stato “trasportato” in cella con il falso pentito Scarantino, a soli cinque giorni dal suo arresto. Che poi, son stato il primo in assoluto a smascherare questo falso pentito, quando circa una cinquantina di magistrati credevano a costui. Chiaro che poi sono passato come teste importante al processo “Borsellino quater”. L’assurdo: quando dissi che era un falso pentito manovrato dai servizi segreti e da magistrati compiacenti, sono stato denunciato per calunnia dal giudice antimafia Vigna di Firenze, poi assolto in Tribunale. Alla fine di tutta questa storia io non ho mai detto, come si può leggere anche nelle mie memorie, che il passaporto era di Emanuela Orlandi”.