“Hanno fatto la fine delle mosche”. Sono le parole della madre di Aurora e Sara, le due gemelle i cui corpi sono stati dilaniati dall’esplosione della fabbrica di fuochi d’artificio di Ercolano, in provincia di Napoli.

È la fine che fanno ogni giorno troppi lavoratori e troppe lavoratrici. In Campania dall’inizio dell’anno siamo a 67 lavoratori morti sui posti di lavoro, 31 tra Napoli e provincia. Un trend in crescita rispetto ai già pessimi risultati dell’anno precedente.

In Italia, nel 2023, secondo le stime dell’Osservatorio di Bologna Morti sul Lavoro, addirittura 1.467 lavoratori e lavoratrici non hanno fatto ritorno a casa dal lavoro. Un numero più alto di quello trasmesso dall’Inail (1.147) perché tiene in conto anche dei dipendenti non assicurati Inail, di quelli irregolari e in nero. Ed è di questo che parliamo per la strage di Ercolano.

“A nero, a nero, purtroppo qua a Napoli devi lavorare a nero”. Così Anna Campagna, suocera di Samuel, il terzo operaio ucciso dall’esplosione. Tutti e tre i lavoratori erano assunti senza regolare contratto. In nero. Fantasmi. Addirittura pare fosse fantasma la stessa fabbrica, senza alcuna autorizzazione a operare, secondo le autorità.

Il lavoro nero è una piaga che coinvolge ben 3 milioni di lavoratori e lavoratrici. Secondo la Cgia di Mestre, il Pil prodotto da questa piaga vale ogni anno quanto due-tre manovre di bilancio: nel 2021 ammontava a 68 miliardi di euro (29,7 al Nord, 23,7 al Sud, 14,5 al Centro Italia).

Spesso pensiamo al lavoro nero come l’opposto del lavoro regolare. In realtà, a ben vedere, è la gradazione estrema della precarietà lavorativa. È l’ultimo gradino di una scala che conduce all’inferno fatto di paghe da fame, assenza di diritti, zero contributi, misure di sicurezza inesistenti.

“Dobbiamo insegnare loro che la via maestra, anche se la più lunga, è quella della legalità e del rispetto delle regole affinché quanto accaduto stasera non accada più”. Sono le dichiarazioni del sindaco di Ercolano, Ciro Buonajuto, riportate dall’Ansa. Sono le stesse che ha ripetuto ai microfoni de La Radiazza su Radio Marte lunedì 19 novembre. E a cui, in diretta radiofonica, ho avuto modo di rispondere.

Perché il problema del lavoro nero non è di natura culturale. Men che meno ha a che fare con l’ignoranza delle norme da parte dei dipendenti. Le storie di Samuel, Aurora e Sara dimostrano che erano “costretti” a quel lavoro. Non perché qualcuno avesse puntato loro una pistola alla tempia, ma perché nel regno della libertà di cui gli esponenti del potere politico, economico e mediatico si riempiono spesso la bocca, esiste la costrizione del bisogno, della necessità di guadagnare anche pochi euro per mettere il piatto a tavola, pagare l’affitto, le bollette, un giocattolo per un figlio.

Samuel aveva solo 18 anni, compiuti a giugno. Una compagna di 17 anni e un figlio di 4 mesi. Sapete perché si era trovato a lavorare in questa fabbrica di morte? Perché era stato costretto ad abbandonare il precedente posto di lavoro, visto che da ben tre mesi non gli veniva corrisposto lo stipendio.

Aurora e Sara, gemelle di 26 anni, dovevano lavorare per aiutare la famiglia ad andare avanti.

È il bisogno che ti costringe ad accettare il lavoro irregolare – che è quello che esiste nella realtà quotidiana di ampi territori, non l’ignoranza o un presunto rifiuto della cultura delle regole.

Così come, dall’altra parte, costringere i dipendenti a non avere alcun contratto e alcuna sicurezza, non si deve all’ignoranza delle leggi e dei millemila incentivi che i governi di ogni colore mettono a disposizione delle imprese (come pure Buonajuto sosteneva stamattina in radio). È più tremendo e più semplice di così: assumere in nero conviene. Niente tasse o contributi, poche decine di euro al giorno come retribuzione. Il tasso di profitto schizza.

E se lo beccano? Grazie allo smantellamento del sistema di controlli – obiettivo raggiunto grazie a politiche bipartisan – il rischio è basso. Gli ispettori del lavoro, ad esempio, sono pochi e il loro ruolo è sempre più quello di burocrati addetti alla compilazione di moduli e scartoffie (magari digitali), più che di funzionari che verificano il territorio e le aziende a tappeto per garantire la salute e la sicurezza di lavoratori e lavoratrici.

Infine, malgrado la smania di Meloni & Co. di inventare nuovi reati, ce n’è uno che proprio non vogliono introdurre: il reato di omicidio sul lavoro e lesioni gravi e gravissime, per cui da anni si battono l’Unione Sindacale di Base e una coalizione di forze, tra cui Potere al Popolo!.

Sarà perché il motto è pur sempre quello di “non disturbare chi vuole fare” recitato da Meloni nel giorno del suo insediamento.

Dopo la strage della Flobert, in cui l’11 aprile 1975 morirono 13 operai per l’esplosione della fabbrica di fuochi d’artificio di Sant’Anastasia, il gruppo musicale ‘E Zezi scrisse una canzone, una sorta di epica popolare, in cui dicevano: “Chi và ‘a faticà pur’ ‘a morte addà affruntà”. Cinquant’anni dopo, nulla sembra cambiato. Eppure la guerra contro il lavoro nero e gli omicidi sul lavoro è l’unica che valga per davvero combattere nell’interesse della maggioranza.

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