L’istigazione alla corruzione è costata tre anni di carcere all’ex prefetta di Cosenza Paola Galeone che, al termine del processo, è stata assolta dall’accusa di rivelazione del segreto di indagine. Si è concluso, comunque, con una condanna e con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici il processo di primo grado nato da un’inchiesta della squadra mobile di Cosenza che, nel gennaio 2020, portò la prefetta Galeone agli arresti domiciliari disposti dal gip su richiesta dell’allora procuratore Mario Spagnolo.
Tutto per una mazzetta, di 700 euro, intascata in diretta. La vicenda è iniziata il 23 dicembre 2019 quando la presidente dell’associazione nazionale interculturale mediterranea (Animed) Cinzia Falcone è stata avvicinata dalla prefetta. Un incontro informale nel corso del quale, stando alla ricostruzione degli investigatori, la prefetta ha prima informato Falcone su alcuni problemi nei documenti presentati per partecipare a una gara per l’affidamento dei centri collettivi di accoglienza “alludendo all’inutilità di ricorsi amministrativi e lungaggini”. Poi, all’improvviso, ha cambiato discorso: “Cinzia, – le avrebbe detto la prefetta – tu hai sostenuto dei costi. Io ho un fondo di rappresentanza in cui residuano 1200 euro… ho pensato che se tu mi fai una fattura da 1200 euro, 500 te li tieni tu e la differenza la giri a me”.
Per gli inquirenti, quella “differenza” era la mazzetta che sotto forma di una fattura da 1220 euro. Soldi che Galeone voleva far comparire come presunte spese di organizzazione di un convegno sulla violenza di genere co-organizzato il 29 novembre scorso al teatro Rendano da Cinzia Falcone e dalla prefettura di Cosenza.
Nelle carte dell’inchiesta viene ricostruito il piano criminale di Galeone seguendo il quale “l’importo, regolarmente fatturato, sarebbe gravato su un fondo di rappresentanza con un saldo attivo che sarebbe ritornato al ministero erogante se non usato entro fine anno”. Un’operazione “giustificata dal fatto – si legge nell’ordinanza – che erano residuati soldi in bilancio che era inutile restituire al ministero, non avendo lo Stato mai rimborsato a lei dei soldi per una parabola satellitare acquistata personalmente dal suo fidanzato”. Quello che la prefetta non aveva calcolato è che la presidente dell’Animed si sarebbe rivolta alla squadra mobile di Cosenza, all’epoca guidata da Fabio Catalano.
Agli investigatori, Cinzia Falcone ha raccontato di temere che la Galeone potesse ostacolare il rimborso di crediti per 300mila euro che la sua associazione vantava nei confronti della prefettura per la gestione di un centro di accoglienza straordinario a Camigliatello. D’accordo con la polizia, quindi, la presidente dell’Animed ha inviato la fattura alla prefetta Galeone e dal suo cellulare è partito il messaggio di risposta: “Io ti stimo e faremo tanta strada assieme”. Lo scambio della mazzetta è avvenuto il 28 dicembre all’interno di un bar. Fuori dal locale, però, ad attendere Galeone c’erano i poliziotti le cui indagini hanno convinto la gip Letizia Benigno, che aveva firmato l’ordinanza di arresto, sulla tendenza dell’indagata “alla commistione tra il denaro proprio e il denaro di pertinenza della prefettura”.
Durante il processo, si è difesa sostenendo che fosse stata la Falcone, per ragioni imperscrutabili, a “infilarle il denaro nella borsetta. “Il poliziotto che mi accompagnava è arrivato dinanzi al bar e si è allontanato, diceva che erano cose da donne e non voleva entrare. – è stata la versione in aula della prefetta – Nel bar mi trovai smarrita, pienissimo di gente. Quando ho visto la busta non ho capito nulla. Sono rimasta sorpresa quando ho visto che c’era del denaro. I soldi sono stati trovati sparsi nella mia borsa, sono uscita serenissima ma poi mi è caduta una tegola addosso”. Un racconto che, ovviamente, contrastava con solo con la versione della presidente dell’Animed ma anche con quanto emerso dalle intercettazioni ambientali. La difesa della prefetta, infatti, non ha convinto la Procura, che al termine della requisitoria aveva chiesto 4 anni e 2 mesi di carcere. E non ha convinto nemmeno il Tribunale di Cosenza.