Lo scrittore d'inchiesta Paolo Cochi ha condiviso con FqMagazine l’istanza con richiesta di riapertura delle indagini, inviata tre giorni fa alla Procura di Firenze, al procuratore Filippo Spiezia e ai sostituti procuratori Ornella Galeotti e Beatrice Giunti
Pietro Pacciani è stato davvero, insieme ai suoi “compagni di merende”, il Mostro di Firenze? Questa domanda e il dubbio che trascina con sé si insinuano con forza sempre maggiore, alla luce di novità di indagine sul serial killer che dalla fine degli anni sessanta alla metà degli ottanta ha seminato la morte nelle campagne fiorentine con una serie di duplici omicidi, tutti ai danni di giovani coppie trucidate in momenti di intimità. Elementi che potrebbero portare alla risoluzione della truce vicenda che ha segnato la storia del nostro Paese.
Pacciani e i compagni di merende
Per gli omicidi del Mostro, lo ricordiamo, negli anni ’90 fu arrestato Pietro Pacciani (il 17 gennaio 1993, precisamente) e con lui furono accusati i cosiddetti “compagni di merende” tra cui Mario Vanni e Giancarlo Lotti. L’inchiesta portò all’accusa di quest’ultimi due per quattro dei delitti compiuti mentre Pacciani, condannato in primo grado ma poi assolto in appello, morì prima di essere sottoposto a un nuovo processo d’appello: per cui quello del Mostro di Firenze è ancora un caso irrisolto. Pacciani, che aveva già scontato una pena per l’omicidio di un uomo sorpreso in intimità con la sua fidanzata, negli anni ’60, fu indagato mentre era di nuovo in carcere per aver violentato le due figlie che aveva segregato in casa, picchiato e nutrito con cibo per cani. Fu “incastrato” da una cartuccia ritrovata nel suo giardino, compatibile con quelle che avrebbe potuto utilizzare il Mostro ma l’assenza di prove schiaccianti ha sempre sollevato molti e profondi dubbi sulla sua reale colpevolezza rispetto agli otto duplici omicidi. Oltretutto, dalle due perizie dei Ris emerse che la pallottola ritrovata e per cui fu arrestato Pacciani non era mai stata incamerata dalla Beretta e addirittura fu manomessa, come risultò dalle varie analisi fatte su richiesta del Pm di allora.
La richiesta e le nuove indagini private
La Beretta calibro 22
Nell’istanza, si riparte sull’elemento cruciale della vicenda: l’arma del delitto che non è stata mai ritrovata, la famosa Beretta Calibro 22 e da un rapporto dei carabinieri del 16 ottobre del 1984 che ci riporta alla pista sul “rosso del Mugello”, un cacciatore con precedenti penali che viveva a Borgo San Lorenzo nel cuore del Mugello. Nel rapporto citato, i carabinieri indicano questa persona, nata del 1938, come possibile detentore, insieme a Feliciano Gangio poi condannato per favoreggiamento del furto, della pistola semiautomatica Beretta calibro 22 modello 75: la stessa rubata nel 1965, nell’armeria Guidotti di Borgo San Lorenzo.
Le telefonate e le lettere anonime
Nell’istanza si chiede di acquisire le copie sia delle bobine Sia della telefonata ricevuta dal magistrato Silvia Della Monica il 23 settembre del 1985 che di quella arrivata alla caserma di Borgo, la notte del delitto compiuto dal mostro il 29 luglio del 1984. A questa telefonata si fa riferimento anche in un’informativa della Squadra Mobile di Firenze del 21 ottobre del 1985, allegata all’istanza presentata. Il numero di Della Monica, piccolo ma fondamentale dettaglio, non era sugli elenchi telefonici e poteva avervi accesso solo una persona con contatti in Procura e questo ci riporta al profilo del Rosso del Mugello, che grazie alla sua amicizia con il magistrato Vigna che era a capo della squadra anti-mostro, aveva ottenuto un impiego presso il Tribunale di Firenze (fonte: Far West). Il rosso del Mugello, lavorando in quell’ambito, aveva anche la possibilità di capire le mosse delle forze dell’ordine durante la caccia al mostro tant’è che i suoi delitti cessarono quando per strada iniziarono a piazzare le auto blindate civetta. Nonostante ci fosse un dossier a suo carico, il rosso non fu mai indagato.
Il familiare della vittima del Mostro chiede alla Procura di analizzare, tramite il suo consulente di parte Paolo Cochi, le tre buste di lettera indirizzate ai magistrati della squadra “anti-mostro” Canessa, Vigna e Fleury. Secondo la perizia criminologica fatta durante il processo Pacciani, queste lettere provenivano con certezza dal serial killer. Nelle tre missive di minaccia, lo ricordiamo, c’erano tre cartucce calibro 22. Ma è soprattutto la saliva utilizzata per incollare le buste che potrebbe fornire nuove verità, se confrontata con la traccia biologica ignota, rinvenuta nella tasca dei pantaloni di Jean Michel Kraveichvili, vittima dell’ultimo delitto del Mostro, l’omicidio di Scopeti in cui furono trucidati i due turisti francesi all’interno della loro tenda da campeggio. Perché di certo c’è del Dna, in base a quanto emerso dalle indagini, sulle lettere inviate ai magistrati, sigillate tutte dalla stessa persona: non è nessuno dei vecchi sospettati con cui non c’è stata mai corrispondenza di Dna.
Il rosso del Mugello
Dall’istanza inviata alla Procura emergono altri due indizi che ci riportano all’elemento centrale, l’arma del delitto e che gravano ulteriormente sul rosso del Mugello: da una perquisizione nel suo appartamento furono recuperate, nel 1966, quindi prima che il mostro entrasse in azione, cartucce e bossoli compatibili con la Beretta calibro 22. Di questo sopralluogo c’è traccia nel rapporto dei carabinieri del 1984, in cui Piero Vinci, un fruttivendolo di Borgo San Lorenzo, ha dichiarato che proprio il rosso del Mugello gli aveva confidato di essere un tiratore di pistola e di avergli mostrato la beretta calibro 22 che gli era stata fornita da Gramigni che l’aveva recuperata dal furto in armeria Guidotti a Borgo San Lorenzo.
Le foto e le impronte
Il legale del fratello di una delle sedici vittime del Mostro chiede alla Procura di acquisire e analizzare anche le copie delle foto a colori scattate negli anni Ottanta al rosso del Mugello, e le sue stesse impronte papillari già rilevate in passato. Queste impronte potrebbero essere confrontate con quella rilevata all’esterno della Fiat Panda 30 in cui furono assaltati e ammazzati dal Mostro Pia Rontini e Claudio Stefanacci, nel 1984, a Vicchio del Mugello.
La macchina da scrivere
C’è ancora un altro oggetto che potrebbe regalare nuove prove genetiche per incastrare il vero mostro di Firenze. Si tratta della macchina da scrivere ritrovata in una vecchia soffitta e acquistata dallo stesso Paolo Cochi dal figlio del sospettato che aveva messo un annuncio su Internet. La macchina, secondo la grafologa forense Clarissa Metrella, è compatibile con le lettere di minaccia arrivate nel 1985 ai magistrati Vigna, Canessa e Fleury. La compatibilità è dettata da segni di usura sulla macchina che spiegherebbero alcune anomalie grafiche ed omografie delle lettere fotocopiate. Tuttavia, per fugare ogni dubbio bisognerebbe accedere agli originali e sottoporli a un test del Dna per ritrovare eventuali tracce sul retro delle buste, dove sono state incollate. La relazione di Cochi è stata consegnata in procura per cui si aspetta adesso una comparazione ufficiale del Dna, con quello delle vittime del Mostro. L’istanza completa di perizie e memorie è stata depositata due giorni fa e se accolta potrebbe portare alla soluzione della più oscura saga della storia d’Italia.