Commozione in aula al processo per l’omicidio di Giulio Regegni mentre sul banco dei testimoni parla la sorella Irene. “Ricordo una telefonata di mia madre, mi disse: ‘Hanno fatto tanto male a Giulio’. La parola tortura però l’ho sentita per la prima volta al telegiornale. Giulio era un ragazzo normalissimo, gli piaceva divertirsi era un esempio per me, il fratellone che dava consigli – ha detto in aula visibilmente commossa la donna che al polso destro indossa i braccialetti gialli che portano il nome del fratello -. Avevamo punti di vista diversi sulle cose: lui era un umanista e io una scienziata. Eravamo sempre in contatto sulle cose importanti: ci sentivamo tramite chat e tramite mail. Giulio – ha aggiunto la sorella – è stato sempre appassionato di storia, studiava l’arabo Dopo il corso triennale andò per la prima volta in Egitto. Era aperto a conoscere culture diverse, in particolare quella egiziana: era entusiasta di andare lì, era contento per la ricerca sul campo”.

Sotto processo ci sono 007 egiziani, accusati di aver seviziato il ricercatore prima di gettare il corpo sull’autostrada che da Alessandria porta al Cairo. E proprio sulle violenze subite dal ricercatore italiano è stata acquisita una video testimonianza di un ex detenuto palestinese in contenuta in un documentario tramesso da Al Jazeera e mostrato oggi nel corso dell’udienza del processo davanti alla Prima Corte di Assise di Roma.

Secondo l’uomo a Regeni sarebbero state rivolte queste domande: “Giulio dove hai imparato a superare le tecniche per affrontare l’interrogatorio? Dove hai conseguito il corso anti interrogatorio? Ricordo più volte questa domanda ripetuta in dialetto egiziano. Non so se Giulio abbia risposto a meno – ha spiegato – Insistevano molto su questo punto, erano nervosi. Usavano la scossa elettrica e lo torturavano con la corrente elettrica”.

Nella video testimonianza l’ex detenuto ha spiegato di aver visto Giulio Regeni il 29 gennaio 2016, tra il pomeriggio e la sera, “mentre usciva dalla palazzina del carcere, passando nel corridoio, diretto al luogo dove avveniva l’interrogatorio. La lingua usata per interrogare era l’arabo e il dialetto egiziano. C’erano anche ufficiali che non avevo mai visto prima e un dottore specializzato in psicologia. Giulio era ammanettato con le mani dietro la schiena, con gli occhi bendati. Era a circa 5 metri da me. Indossava una maglietta bianca, un pantalone largo blu scuro”.

In seguito “l’ho rivisto che usciva dall’interrogatorio, sfinito dalla tortura. Era tra due carcerieri che lo portavano a spalla verso le celle”. Quando, ha spiegato il palestinese, “ero in quella struttura i miei familiari non sapevano nulla di me, non c’era nessun contatto col mondo esterno: la sensazione era quella di stare in un sepolcro. Sono stato sequestrato, detenuto e poi liberato senza un perché”.

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