“Giulio era un ragazzo normalissimo. Quando il 3 febbraio 2016 ho saputo al telefono da mia mamma che non c’era più, ci chiedevamo ‘ma perché, ma come, non è vero. Perché Giulio? Le domande che ci continuiamo a porre ancora oggi”. Queste le parole di Irene Regeni, sorella del ricercatore friulano, nel corso della sua testimonianza durante il processo a Roma sul sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni.

Imputati sono quattro 007 egiziani: ovvero, Usham Helmi, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati del reato di sequestro di persona pluriaggravato (mentre al solo Sharif sono contestati anche i reati di concorso in lesioni personali aggravate e di concorso in omicidio aggravato, ndr).

Nel corso dell’udienza, davanti ai giudici della corte d’assise di Roma, la sorella ha ricordato: “Avevamo punti di vista diversi sulle cose: lui era un umanista e io una scienziata. Eravamo sempre in contatto sulle cose importanti: ci sentivamo in chat e tramite mail. Lui è andato via da casa a 17 anni. L’ho sempre visto come grande esempio. Era il mio ‘fratellone’, lo cercavo per darmi un consiglio”.

Quindi ha concluso: “Mia mamma mi chiamò e mi disse ‘Hanno fatto tanto male a Giulio’. Poi la parola tortura l’ho sentita per la prima volta al telegiornale. Non avrei mai pensato di vivere senza”.

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