Meglio un sistema più rigido, con un’inedita griglia di punteggi per ridurre al minimo il potere delle correnti, o uno più “largo”, che lascia maggiore discrezionalità limitandosi a mettere ordine nella giungla dei criteri di valutazione? Il dibattito riempie da settimane le chat e le mailing list di giudici e pm in vista di un […]
Meglio un sistema più rigido, con un’inedita griglia di punteggi per ridurre al minimo il potere delle correnti, o uno più “largo”, che lascia maggiore discrezionalità limitandosi a mettere ordine nella giungla dei criteri di valutazione? Il dibattito riempie da settimane le chat e le mailing list di giudici e pm in vista di un voto decisivo a cui mercoledì sarà chiamato il Consiglio superiore della magistratura: l’approvazione del nuovo Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, la circolare interna che fa da vademecum per le scelte dei capi di Procure, Tribunali e Corti di tutta Italia.
La questione è tecnica ma ha ricadute importantissime, perché i difetti dell’attuale Testo unico hanno aperto la strada al mercato delle nomine venuto a galla con lo scandalo Palamara: la circolare in vigore, infatti, detta una lunghissima serie di parametri, i cosiddetti “indicatori“, che descrivono innumerevoli esperienze e qualità raccomandate a chi aspira a dirigere i diversi uffici, senza però stabilire in modo chiaro quali di questi criteri debbano prevalere sugli altri. Così, fino adesso, le diverse maggioranze politiche al Csm hanno avuto gioco facile a “gonfiare” gli indicatori in possesso dei “loro” candidati ridimensionando quelli favorevoli agli avversari, senza che i giudici amministrativi (Tar e Consiglio di Stato) potessero intervenire ad annullare le nomine, se non in casi clamorosi. Per questo la riforma Cartabia del 2022 ha imposto al Consiglio di riscrivere il Testo unico, fornendo una serie di indicazioni sui parametri da valutare “specificamente” nell’assegnazione di un determinato posto a concorso.
Al momento di tradurre quelle indicazioni in una nuova circolare, però, a palazzo Bachelet si è creata una spaccatura trasversale tra filosofie diverse, che ha messo insieme la corrente progressista di Area e i conservatori di Magistratura indipendente (Mi) in un’inedita alleanza contro il sistema dei punteggi, proposto invece da Magistratura democratica (Md, altra storica corrente di sinistra) e dai “moderati” di UniCost (l’ex gruppo di Palamara, impegnato in uno sforzo di rinnovamento dopo lo scandalo). La Commissione competente, la Quinta, ha quindi varato due testi contrapposti, tra i quali il plenum (l’organo al completo) dovrà scegliere nella seduta del 20 novembre.
La proposta 1, quella senza i punteggi, ha raccolto in Commissione i tre voti del presidente Ernesto Carbone, consigliere laico in quota Italia viva, e dei togati Maurizio Carbone di Area ed Eligio Paolini di Mi: prevede in sintesi una scala di importanza tra i diversi indicatori, assegnando il peso maggiore al fatto di aver già svolto “le medesime funzioni del posto a concorso” (ad esempio, chi ha già fatto il procuratore capo o il presidente di un Tribunale sarà preferito nel concorso per ricoprire lo stesso incarico in un ufficio più grande). A parità di curriculum, però, nella valutazione potranno essere considerati una serie di criteri generali – ad esempio la “capacità di efficiente organizzazione del lavoro”, le “capacità relazionali” o l'”efficace utilizzo delle tecnologie” – che secondo i critici faranno rientrare la discrezionalità dalla finestra, consentendo in ogni caso, anche se meno di prima, di “aggiustare” le motivazioni delle nomine a seconda del candidato più gradito.
La proposta 2, votata in Commissione da Mimma Miele di Md e Michele Forziati di UniCost e sostenuta pure dai togati indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda, prevede invece un articolato sistema di punteggi da assegnare per ciascuno degli indicatori previsti dalla legge Cartabia: in alcuni casi si tratta di un punteggio fisso, in altri di un range tra un minimo e un massimo. Ad esempio: cinque punti per ogni valutazione di professionalità positiva (criterio che valorizza l’anzianità), da 0,3 a un punto per ogni anno di esperienza fuori ruolo, fino a cinque punti per “ogni altra specifica competenza“, più un punteggio aggiuntivo per ogni anno di esperienza in uffici simili a quello che si vorrebbe dirigere (da 0,3 punti a un punto, a seconda di quanto l’esperienza svolta è assimilabile a quella del posto a concorso).
Secondo i proponenti, questo metodo riduce al minimo la discrezionalità e quindi il potere delle correnti, dettando le “regole del gioco” fin dall’inizio e costringendo a giustificare le scelte in modo analitico; secondo gli oppositori, invece, i punteggi costituiscono una gabbia eccessivamente rigida, che svilirebbe l’autonomia del Csm e produrrebbe risultati controproducenti, finendo in parecchi casi per favorire i meno meritevoli. La proposta senza i punteggi parte in vantaggio in plenum, potendo contare sui sei voti di Area, i sette di Mi e quello di Ernesto Carbone; per i punteggi, invece, sono sicuri i quattro di UniCost, Miele, Fontana e Mirenda. Decisivi saranno i voti dei laici, i componenti eletti dal Parlamento: la loro unica rappresentante in Commissione, la leghista Claudia Eccher, si è astenuta, lasciando una grossa incognita su come si orienterà la pattuglia del centrodestra. I consiglieri in quota centrosinistra, Roberto Romboli per il Pd e Michele Papa per il M5s, dovrebbero invece appoggiare il testo che prevede i punteggi.