L’Unione europea non è più quella delle precedenti Conferenze delle parti sul clima. Alla Cop 29 di Baku, in Azerbaigian, perde quella leadership che le veniva riconosciuta, tra incertezze, pretese e pressioni da parte degli altri Paesi che, invece, proprio dal vecchio Continente si aspettavano certamente una marcia in più. A maggior ragione dopo la […]
L’Unione europea non è più quella delle precedenti Conferenze delle parti sul clima. Alla Cop 29 di Baku, in Azerbaigian, perde quella leadership che le veniva riconosciuta, tra incertezze, pretese e pressioni da parte degli altri Paesi che, invece, proprio dal vecchio Continente si aspettavano certamente una marcia in più. A maggior ragione dopo la vittoria di Trump alle elezioni e in vista della più che probabile uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi e dai negoziati. I venti che arrivano da Bruxelles, però, sembrano andare in direzione opposta a quella della Cop e della lotta ai cambiamenti climatici. Tutto ciò è ancora evidente nell’ultima bozza di testo, appena pubblicata, sul nuovo obiettivo finanziario destinato ai paesi in via di sviluppo. Simbolo della posizione europea è l’amaro premio, ricevuto dall’Unione europea al nono giorno della Cop: il Fossil of the Day assegnato dal Climate Action Network, principale coalizione di ong europee che si occupano di crisi climatica. Nei giorni scorsi, per inciso, era stato assegnato a Italia e G7. L’Unione europea l’ha ricevuto anche per come sono andati i negoziati sul clima nei primi dieci giorni di Cop.
Finanza, l’Unione europea a braccia corte – È accaduto nelle ore in cui a Baku si attendeva freneticamente la diffusione delle prime vere e proprie bozze sull’obiettivo di finanza climatica, il cosiddetto Ncqg, ma anche su transizione, mitigazione e adattamento. Perché nella discussione sulle cifre chieste dai Paesi in via di sviluppo (si va dai 400 miliardi ai 2 trilioni di dollari all’anno, inclusa la finanza privata) e la posizione degli Stati Uniti (ferma al tetto dei 100 miliardi di dollari) praticamente uguale a quello stabilito nel 2009, ma raggiunto solo nel 2022, ad un certo punto è arrivata la proposta di 200-300 miliardi di dollari all’anno, di sola finanza pubblica. Un ipotetico fondo molto più vicino alla proposta Usa che alle esigenze effettive dei Paesi in via di sviluppo, ipotizzato a quanto pare proprio dai negoziatori europei. “È uno scherzo?” hanno commentato i rappresentanti di Africa, America Latina e Asia. Ma l’Ue si è anche opposta alla possibilità di includere dei sotto-obiettivi per l’adattamento e i fondi da destinare alle perdite e ai danni dovuti agli effetti dei cambiamenti climatici. E, come previsto, anche il testo pubblicato dalla presidenza della Cop alle prime luci della mattina, lascia in sospeso le questioni più controverse, come l’ammontare del nuovo obiettivo, chi paga e quale dovrebbe essere la struttura del finanziamento. Il testo propone, infatti, due opzioni principali: una riflette le preferenze dei paesi in via di sviluppo, un obiettivo annuale (non ancora stabilito) a partire dal 2025 fino al 2035, l’altra quella dei paesi sviluppati, ossia un obiettivo da raggiungere entro il 2035, dando alle nazioni ricche più tempo per impegnarsi a raggiungerlo.
La posizione dell’Ue sui Paesi finanziatori – Bruxelles, poi, ha assunto una posizione piuttosto netta anche su quali dovrebbero essere i ‘nuovi’ finanziatori, ossia quei Paesi che, come la Cina, oggi figurano nella Convenzione quadro come ‘in via di sviluppo’, ma non possono più essere definiti Paesi poveri e, in molti casi, sono delle potenze a tutti gli effetti. Oltre a Cina, India e stati petroliferi, di cui si è molto discusso negli ultimi anni, Bruxelles avrebbe espresso in più circostanze l’intenzione di allargare la platea anche a Corea del Sud, Singapore e, a quanto pare, al Brasile. Valgano le parole del commissario per il Clima, l’olandese Wopke Hoekstra, già consulente della compagnia petrolifera Shell ed esponente dei conservatori liberali del partito Appello Cristiano Democratico (dunque a Bruxelles è nel Ppe): “I Paesi devono contribuire in base alle loro emissioni e alla loro crescita economica”.
L’Ue, più che al fossile conferma l’addio al Green Deal – Ma quello dei finanziamenti non è l’unico aspetto a destare perplessità. Basti pensare al pasticciaccio che nei giorni scorsi ha riguardato la legge Ue sulla deforestazione, una delle misure simbolo del Green Deal. Con gli europarlamentari del Partito Popolare Europeo (Ppe), inclusi gli italiani di Forza Italia, che si sono schierati con l’estrema destra e, a seguito della proposta della Commissione Ue di rinviare la data di applicazione di 12 mesi, hanno presentato 15 emendamenti che miravano ad annacquare il regolamento. A mettersi di traverso, a sorpresa, un’ampia maggioranza di Paesi Ue, che ha rigettato le proposte di modifica. Ma le strategie per affossare la legge sulla deforestazione arrivano dopo il ritiro del Regolamento sui pesticidi, i ritardi causati dal sabotaggio della Nature Restoration Law e tante altre manovre politiche che, molto spesso, hanno visto protagonista il partito di Ursula Von Der Leyen. Ciò che non arriva da Bruxelles, invece, sono i nuovi Ndc, i contributi determinati a livello nazionale con gli impegni con orizzonte 2035 sia sul fronte dei finanziamenti che su quello del taglio delle emissioni. Certo, tutti i Paesi hanno tempo fino a metà febbraio per presentarli ed è già chiaro da tempo che molti non lo faranno. Ma sull’Unione Europea le aspettative erano più alte, tanto che in questi giorni dal Brasile è arrivato persino l’invito ad anticipare il suo obiettivo di neutralità climatica attualmente fissato al 2050. Invece, da giorni si rincorrono voci sulla possibilità che l’Unione europea arrivi a febbraio 2025 senza neppure l’Ndc pronto. Anche perché un conto è prendere impegni, un conto è dare seguito agli obiettivi con un Green Deal a metà.