“Gli imputati hanno deliberatamente taciuto l’esistenza di risultanze investigative in palese e oggettivo conflitto” con la loro ricostruzione accusatoria, spesa “in dibattimento (e nella requisitoria) a dispetto delle pressanti esortazioni ricevute da un soggetto specificamente qualificato, ossia un magistrato in servizio presso il medesimo ufficio di Procura, preoccupato per il vulnus arrecato dalle condotte omissive al corretto sviluppo del processo Eni-Nigeria“. È un passaggio delle motivazioni della sentenza con cui lo scorso ottobre il Tribunale di Brescia ha condannato a otto mesi di reclusione i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati di rifiuto d’atti d’ufficio per non aver depositato atti favorevoli alle difese nel procedimento su una presunta maxi-corruzione internazionale di Eni in Nigeria, chiuso con l’assoluzione definitiva di tutti gli imputati. Un altro sostituto procuratore dell’ufficio, Paolo Storari, aveva infatti segnalato ai colleghi gli esiti di alcuni accertamenti – condotti nella vicenda sul cosiddetto “falso complotto” – che minavano in particolare la credibilità di Vincenzo Armanna, ex dipendente Eni e “grande accusatore” dei vertici della compagnia petrolifera nel fascicolo in mano a De Pasquale e Spadaro.
Secondo il collegio di Brescia presieduto da Roberto Spanò, i due pm “hanno utilizzato solo ciò che poteva giovare alla propria tesi, tralasciando chirurgicamente i dati nocivi che pure erano stati portati alla loro attenzione”. E lo hanno fatto perché “la condanna” di Eni “sarebbe servita a giustificare le scelte organizzative della Procura, che aveva attribuito al Terzo dipartimento guidato dal dottor De Pasquale – quello che si occupava della corruzione internazionale (chiamato scherzosamente dai coleghi il “dipartimento viaggi e vacanze”) – carichi di lavoro inferiori rispetto a quelli di altre aree. In caso di vittoria, il Terzo dipartimento sarebbe diventato “il fiore all’occhiello” dell’ufficio milanese”, sostengono i giudici, gli stessi che hanno condannato l’ex consigliere Csm Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio. Secondo la sentenza, contro Storari – tacciato di “creare un clima sfavorevole all’accusa” – era stato eletto in Procura un “quadrilatero”, come il sistema difensivo dell’impero austriaco nel Lombardo-veneto, a “salvaguardia del processo Eni Nigeria”, formato, oltre che da De Pasquale e Spadaro, dall’allora procuratore Francesco Greco e dall’aggiunta Laura Pedio, ora capo dei pm di Lodi.
Il difensore dei due pm imputati, l’avvocato Massimo Dinoia, commenta le motivazioni con toni fortemente critici: “Era semplicemente impossibile che la sentenza del Tribunale di Brescia potesse giustificare giuridicamente la condanna del dottor De Pasquale e del dottor Spadaro ed infatti non c’è riuscita, neppure in minima parte. La motivazione ha fugacemente toccato soltanto alcuni temi, ma i punti cruciali sono rimasti del tutto senza risposta. È assolutamente pacifico che i documenti, che, secondo la sentenza, i due pubblici ministeri avrebbero dovuto depositare, non erano mai stati in loro possesso: la condanna è stata comminata per non aver depositato documenti (chat e video Bigotti) che però erano nella disponibilità di altri magistrati e financo di alcune difese. Questo, che era il fulcro di tutto il processo, è stato incredibilmente ignorato“, scrive in un comunicato.
“I due pubblici ministeri”, aggiunge, “hanno fatto all’epoca una valutazione dei fatti in base a norme di diritto e informando immediatamente il Procuratore capo e un altro aggiunto, in piena trasparenza. Hanno scritto che era una ricostruzione sbagliata e basata su errori di fatto e di diritto, che non c’era nessuna “prova” seriamente spendibile in nessun senso. Hanno sbagliato valutazione? Su questo la sentenza neanche risponde. Confido che la Corte d’Appello annulli questa sentenza e ristabilisca la verità: il dottor De Pasquale e il dottor Spadaro devono essere assolti perché il fatto non sussiste”.