Il professor Davide Quaranta spiega al FattoQuotidiano.it quali sono i rischi associati alla sindrome e come intervenire per ridurre il rischio
Una persona anziana che ha voglia di dormire durante il giorno e mostra una mancanza di entusiasmo nello svolgere attività quotidiane a causa di disturbi del sonno può avere una probabilità tripla di sviluppare una sindrome che può portare alla demenza. È quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Neurology.
La ricerca
Al centro dello studio c’è il fenomeno della “pre-demenza”. Di cosa si tratta? È una sindrome caratterizzata dal camminare a velocità ridotta, da qualche problema di memoria, pur senza la presenza di disabilità motoria o demenza. Più precisamente si chiama sindrome del rischio cognitivo motorio, una condizione che può manifestarsi quindi prima dello sviluppo della demenza.
La ricerca, condotta dalla dottoressa Victoire Leroy dell’Albert Einstein College of Medicine nel Bronx, New York, ha coinvolto 445 persone con un’età media di 76 anni che non avevano demenza. All’inizio i partecipanti hanno completato questionari sul sonno e fornito informazioni sui problemi di memoria mentre la loro velocità di camminata è stata testata su un tapis roulant. Un totale di 177 persone rientrava nella categoria dei cattivi dormitori e 268 in quella dei buoni dormitori. All’inizio dello studio, 42 persone presentavano la sindrome del rischio cognitivo motorio. Altre 36 persone hanno sviluppato la sindrome durante lo studio.
Tra coloro che avevano eccessiva sonnolenza diurna e mancanza di entusiasmo, il 35,5% ha sviluppato la sindrome, rispetto al 6,7% delle persone senza questi problemi. I ricercatori hanno scoperto che le persone con eccessiva sonnolenza diurna e mancanza di entusiasmo avevano più di tre volte le probabilità di sviluppare la sindrome rispetto a chi non aveva questi problemi legati al sonno. “Esiste la possibilità che le persone possano risolvere i problemi di sonno e prevenire così un declino cognitivo più avanti nella vita”, ha dichiarato l’autrice dello studio.
Il parere dell’esperto
“Il tema della qualità del sonno è centrale nel trattamento delle demenze cognitive. E questo studio conferma la direzione verso la quale sta andando tutta la ricerca scientifica: i disturbi del sonno possono aumentare il rischio di deterioramento cognitivo – spiega al FattoQuotidiano.it il professor Davide Quaranta, neurologo e docente di Neuropsicologia e Neuroscienze Cognitive presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – Ci sono ormai molte evidenze che sul fatto che la perdita di ore di sonno riduce la funzionalità motoria”. Oltre al sonno, un altro spunto interessante che ci fornisce questo studio è legato all’insorgenza della depressione. “Si dorme peggio quando si hanno problemi depressivi – continua l’esperto – e dormire male a sua volta va a incrementare il disagio psichico. Per cui si potrebbe intervenire su questi sintomi, senza necessariamente ricorrere ai farmaci per ridurre il rischio di una demenza”.
Il sonnellino pomeridiano
“Chiariamo però subito una cosa – sottolinea Quaranta – desiderare di fare un sonnellino nel pomeriggio, non è assolutamente un campanello d’allarme. Per cui rassicuriamo subito chi può avere questa abitudine. La ricerca evidenzia – è bene rimarcarlo – una condizione di sonnolenza continua diurna associata a un senso di fatica nel muoversi e sintomi depressivi”.
Intervenire tempestivamente
La conferma che questi sintomi possano essere un campanello d’allarme prima ancora di una pre-demenza, della comparsa della sindrome del rischio cognitivo motorio, può incentivare interventi di riduzione del rischio agendo su alcuni fattori legati allo stile di vita. “Come per esempio fare attività fisica moderata fin dalla mezza età e tenere allenata la mente e non essere passivi – chiarisce Quaranta – . Purtroppo non esistono farmaci o vaccini che possano escludere il rischio di patologie legate alla demenza cognitiva, come per esempio l’Alzheimer, ma si può senz’altro fare qualcosa per ritardarne la comparsa intercettando molto per tempo i fattori di rischio”.