Ambiente & Veleni

La Cop29 di Baku è anche “Expo”: scienza, ong ma anche marketing e green washing tra i padiglioni. Viaggio nella “fiera dell’ambiente”

Baku, Cop29: 197 Paesi più l’Unione Europea discutono sui nuovi obiettivi per arginare, contrastare, fermare, il cambiamento climatico. La città in questi giorni è settata sul grande evento, l’area dello stadio ospita le sale della diplomazia e delle dichiarazioni, ma anche i padiglioni di centinaia tra Paesi e organizzazioni. Un misto tra esposizione delle novità e dei programmi e dei progetti delle varie nazioni, in più eventi dentro l’evento. Per capirci: immaginate un immenso hangar, diviso in tante piccole aree, ognuna con il proprio spazio conferenza. Una fiera dell’ambiente. Solo che non si vende nulla, a parte la reputazione.

Le proteste palestinesi
Partiamo dal principio. A pochi metri dall’ingresso dei padiglioni, ci sono 13 persone in piedi, una accanto all’altra. Tengono in mano un lungo papiro zeppo di nomi, il rotolo è ai loro piedi. Leggono, uno dopo l’altro, i nomi delle vittime civili degli attacchi israeliani in Palestina. Si danno il cambio, sono lì ad ogni ora, con o senza microfono. Un rosario instancabile e senza fine.

Il tour dei rischi in 3D
Uno dei primi stand appena entrati è quello delle Nazioni Unite. Con i visori in 3d è possibile ascoltare le testimonianze degli abitanti dei Paesi che sono in pericolo a causa del cambiamento climatico e di chi è costretto a spostarsi, che sia per l’innalzamento del livello del mare o per la siccità. Facciamo un viaggio nelle Isole Marshall, il mare cristallino, la pesca. Le guardiamo da ogni angolazione. Si è lì, si sente il tepore del sole sulla pelle ma anche la voce di una giovane ragazza che ci racconta che presto potrebbe dover lasciare quel posto felice, dove tutti vorrebbero vivere. “Il cambiamento climatico – dice – si può arginare solo se la si smette di pensare ognuno per sé”. Qualcuno sta distruggendo la sua casa e forse neanche ci pensa.

La Green (washing) Zone
E in effetti, a poche centinaia di metri di distanza, c’è la cosiddetta Green Zone. È un unico spazio che ospita solo iniziative di aziende e di istituzioni dell’Azerbaigian. E’ verde di nome e di fatto, nel senso che l’intera operazione ha il sapore del greenwashing che può fare un Paese produttore di gas e petrolio che ospita il più importante summit negoziale sul clima mentre dice che il gas è “un dono di Dio”. La terra del fuoco, infatti, deve alle fonti fossili metà del suo Pil. Le tre torri a forma di fiamma che sono il simbolo della città ogni sera vengono illuminate di verde. E così, la Socar, la società energetica di Stato, qui è “Socar Green” e presenta le sue idee per la decarbonizzazione entro il 2035, tra eolico ma soprattutto attraverso la cattura e lo stoccaggio della Co2. C’è anche uno stand sulla fusione nucleare, un altro promosso dall’alleanza globale sui biocarburanti mentre nello spazio del commercio e degli investimenti, un plastico dell’Azerbaijan mostra i punti dove sono e saranno installate fonti di energia rinnovabili. La regione del Lachin, il corridoio che si affaccia sui territori armeni occupati di Nagorno-Karabakh, ne è piena. Sullo schermo in fondo, l’annuncio di un panel: “L’Italia incontra l’Azerbaigan: insieme per un futuro più verde”.

Usa e Cina
Il padiglione americano langue, è grande ma poco attraente. Non si può dire lo stesso di quello cinese (entrambi i presidenti hanno disertato la Cop29 e Trump pare pronto a uscire dall’Accordo di Parigi): : bandierine, libri, brochure. È grande, si sta tenendo l’intervento del presidente della società degli imprenditori e dell’ecologia. Tutte le sedie sono occupate, ma ci sono anche persone in piedi. In uno dei report che si possono prendere, si legge ad esempio che “‘l’industria cementifera cinese è una delle più inquinanti per consumo di energia ed emissioni di carbonio in Cina, responsabile del 12,4 per cento delle emissioni” e che però anche gli Usa non stanno benissimo. L’intenzione è settare nuovi standard e sviluppare un ciclo produttivo verde, magari puntando su edifici sostenibili. Tra gli eventi in programma anche uno dal titolo: “Il Bamboo come sostituto della plastica”.

Vino, dolci, souvenier e cabine telefoniche
Tra un padiglione e un altro, si vedono muoversi carrelli colmi di bottiglie di vino e cibo: non è difficile trovarsi nel mezzo di un aperitivo o di un piccolo buffet. Intercettiamo quello della Gran Bretagna: siamo in Azerbaigian ma servono mini cannoli e bignè. C’è la fila: è stata installata una cabina telefonica inglese e c’è la corsa a farsi una foto. La Cop ha anche il suo negozio di “souvenier”. Va molto di moda la “borraccia” per bere, visto che l’acqua è distribuita gratuitamente con appositi dispenser. Costa 44 manat, circa 22 euro. Ce l’hanno praticamente tutti, è quasi parte di un dress code dei partecipanti. In alternativa, botteghini in ogni dove vendono caffè e cibo a prezzi sopra la media. Ci sono materiali riciclabili, ma anche molta plastica. Alcuni esortano a non utilizzarla, ma molti la propongono di default.

Nucleare e padiglione Italia
La correlazione sarà casuale, ma c’è. Dopo la zona britannica, c’è l’area “Net Zero Nuclear”, riservata, si legge, “alle tecnologie nucleari che incontrano gli Un Sustainable Development Goals”, ovvero gli obiettivi sostenibili delle Nazioni Unite, come le emissioni zero. Una foto accanto all’entrata ricorda come alla Cop 28, i leader di 25 Paesi si siano accordati per triplicare l’energia nucleare entro il 2050. Ebbene, tre passi più avanti, c’è il padiglione italiano: bianco, spicca solo il tricolore. Alcune immagini sulle pareti mostrano la “cooperazione” italiana in Kenya o in Chad (per lo più donne intente a raccogliere qualcosa o paesaggi). Il desk è abbellito da una selezione di foto del Mose di Venezia. Un esponente dell’amministrazione azera sta parlando dei rapporti e della collaborazione con l’Italia sull’import export. Uomini e donne per lo più in completi eleganti ascoltano in silenzio. Di fronte, lo stand dell’Indonesia pullula di colori e donne in abiti tradizionali. Non potrebbe esserci contrasto maggiore.

Oceani, Mediterraneo e “Business Risk”
Il punto più scenografico dell’intera area è sicuramente quello sugli oceani. L’Ocean Pavilion è blu, colorato, grande: esorta a entrare. È curato da una serie di soggetti, istituti di ricerca, centri oceanografici, forum e piattaforme in difesa dell’oceano e del clima. Gli incontri spaziano dalle pratiche di sostenibilità all’impiego della finanza climatica anche per potenziare programmi di monitoraggio ed estrazione dati sugli effetti del cambiamento climatico. Nei dintorni, anche il padiglione Mediterraneo, promosso dall’Unione per il Mediterraneo (cofondato dall Unione Europea) e da altri stakeholder come il think tank italiano Ecco o l’associazione degli economisti euro-mediterranei. E su quest’ultimo punto, a colpire, è la presenza della “We mean business coalition”. Il loro slogan è cristallino: “Climate risk is business risk”. Il rischio climatico mette a rischio anche le imprese.