di Paolo
Trovo la situazione surreale, alla luce delle dichiarazioni post-elettorali delle tanto impegnate dirigenze partitiche a corto d’idee e che così poco attraggono l’elettorato. Le grandi domande: da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Hanno fatto il loro tempo. Ora sono più trendy: chi siamo? Perché facciamo parte di un gruppo che cambia nome ad ogni intervista? C’è alternativa alla destra? Esiste vita al di là del Pd? Se lascio la lavatrice accesa, faccio più rumore di una manifestazione organizzata? Avere idee opposte è ancora democrazia, o è considerata una prassi pari al veto? Siamo seri.
Se c’è una cosa che ho sempre odiato da elettore, è ascoltare il politico in tour, che viene nella mia città a raccontarmi quali sono i miei problemi. Per vincere una battaglia è imperativo cominciare a parlarne. Per perdere una battaglia è sufficiente procedere in due modi: il primo consiste nell’evitare di parlarne, il secondo è continuare a parlarne. Non credo ci sia altro motivo per cui gran parte della politica, a stento menzioni la mafia -con le dovute eccezioni- e nei giorni buoni proponga di combatterla, ma mai di sconfiggerla.
Poniamo al potere gente il cui hobby è scombinare il sistema politico, possibilmente con la stessa premura e rispetto del principio di precauzione che ci spinge ad avvolgere i fusibili nella carta stagnola… Lo scazzo tra poteri dello Stato ormai rientra nella quotidianità.
Al Parlamento spetta il potere di creare il conflitto, al governo di metterlo in atto, e alla magistratura di subirlo o all’occorrenza; di rispondere rammentando il principio della separazione dei poteri, che secondo recenti studi condotti da gente scappata dall’aperiparty: è il linguaggio vetusto dei boomer per dire “fare politica senza passare dal voto”. Avvertire noi che l’ennesimo attacco alla magistratura è una roba eversiva, è considerata già una battaglia? Basta questo?
Paghiamo lautamente dei signori affinché si possano curare in cliniche private; così che in perfetta salute, decidano di non investire abbastanza denaro in quella pubblica, a cui rinunciamo perché non abbiamo il tempo di aspettare e neanche i soldi per rivolgerci altrove. La sanità è il primo paziente di se stessa, sofferente da quando ne ho memoria e forse prima di interrogarci su ciò che l’aspetta, dovremmo spendere due parole su cos’è, e sarà la salute. Rammentare a noi che ci sono lunghe liste d’attesa è considerata una battaglia? Domani attenderemo meno grazie ai frutti di questa sottile strategia?
Discutere di lavoro è un po’ come il dover dare una brutta notizia. Nell’epoca del licenziamento via e-mail, la prendiamo alla larga, decantiamo fieri i pregi dell’attività produttiva, la voce tremula ove ci si riferisse a conoscenze intellettuali, e poi un colpo di tosse di troppo casomai s’indugiasse sul compenso. Tutti sappiamo della dipartita di alcuni mestieri e anche della precarietà di tanti altri.
Non riusciamo a sostenere un’economia che non poggi i piedi sui malati, siano essi operai o consumatori. Abbiamo quattro milioni di diabetici in Italia, il 90% sono di tipo 2 e si stima ce ne siano un milione e mezzo che non sanno neanche di esserlo. Eppure in Europa non si riesce a tassare lo zucchero. Quando ci si ammala si viene posti al di fuori del mondo del lavoro, quindi per preservare un mercato che da lavoro ad un parte, lasciamo che lo stesso tolga lavoro all’altra parte. Perché non si parla di come sia sbagliato porre in conflitto due diritti costituzionali?
Potrei continuare, ma per tornare al principio: possibile che questa palude che ci tiene fermi sia la nostra giornata? Si ripete sempre uguale e noi non facciamo che continuare a parlarne. Non sono le nostre parole che diventano le loro, ma sono le loro che diventano le nostre. Così in conclusione, anche noi ci si arrovella sulle alleanze, e non capisco se abbiamo ancora la forza di lottare per sopravvivere, o se sopravviviamo a battaglie che nessuno combatte per vincere.