di Roberto Iannuzzi *
Sarebbe fin troppo facile sparare a zero contro l’entrante amministrazione Trump, accodandosi ai grandi giornali della stampa americana che già hanno lanciato l’allarme sui disastri che essa provocherà. Far ciò significherebbe ignorare sia il fallimento dei democratici, e più in generale dell’establishment politico degli ultimi decenni (i primi responsabili dell’affermazione del magnate repubblicano), sia le grandi aspettative che circa metà della popolazione statunitense nutre a seguito della sua vittoria.
Piaccia o meno, una consistente fetta di americani ha vissuto il trionfo di Trump come una liberazione da un regime oppressivo sul fronte interno nei confronti di tutti coloro che non vi si riconoscevano, e impegnato in guerre inutili quanto costose e fallimentari all’estero. Costoro vagheggiano una sorta di rinascita americana che dovrebbe essere frutto del reindirizzamento delle energie e delle risorse del paese verso la rifondazione interna, lontano da avventurismi e da ogni ossessione egemonica all’estero. Eleggendo Trump, essi hanno votato forse l’unica alternativa possibile all’establishment consolidato che un sistema elettorale datato e colmo di imperfezioni consentiva loro di scegliere.
Il vero interrogativo è fino a che punto egli possa realizzare simili aspettative, tenuto conto dei suoi limiti, così come del fatto che le lacerazioni, lo scontro culturale, e l’establishment corrotto non sono alle spalle, sono ancora lì. Trump vuole disimpegnare l’America da guerre e focolai di tensione all’estero per concentrarsi sulla ricostruzione del paese. Al tempo stesso, egli ritiene che l’ordine internazionale creato dagli stessi Stati Uniti sia in realtà svantaggioso per l’America. Per porre rimedio a questo squilibrio percepito, egli vuole contrastare l’immigrazione e imporre misure protezionistiche, e desidera che gli alleati degli Usa spendano di più per la propria difesa.
Il suo slogan di politica estera, Peace through strength, è però contraddittorio. Trump sogna di porre fine agli impegni militari statunitensi nel mondo, ma la pace di cui parla continua ad assomigliare alla “pax americana”, non a una pace fondata sul riconoscimento dei mutati equilibri internazionali. E’ una pace che va garantita con la “forza”, apparentemente intesa non come impiego diretto della macchina bellica Usa, ma come “deterrenza” derivante dalla superiorità militare americana, una superiorità che però gli Stati Uniti non paiono più possedere. Ristabilire tale superiorità richiederebbe ulteriori investimenti nel settore della difesa, uno dei pochi dove invece si potrebbero effettuare tagli per ridurre la spesa pubblica.
Allo stesso tempo, la sua amministrazione sembra fondarsi su un bizzarro mix di conservatori e tycoon della Silicon Valley, da Elon Musk a Peter Thiel, a Marc Andreessen, “tecno-ottimisti” (come qualcuno li ha definiti) che sperano di superare la crisi attraverso il perseguimento del sogno tecnologico e l’intelligenza artificiale (IA), piuttosto che tramite un ripensamento del modello economico americano. Costoro sono anche entusiasti sostenitori dell’applicazione dell’IA al settore della difesa, e contractor privilegiati del Pentagono. Pur deplorando gli impegni militari americani all’estero, escogitano nuovi sistemi d’arma da impiegare nelle guerre future.
Destano perplessità anche i nomi scelti da Trump per ricoprire i più importanti incarichi di politica estera nella nuova amministrazione, da Marco Rubio al Dipartimento di Stato a Mike Waltz al Consiglio per la Sicurezza Nazionale, da Pete Hegseth al Pentagono a John Ratcliffe alla Cia. Con poche eccezioni (Tulsi Gabbard alla guida del National Intelligence), si tratta essenzialmente di una squadra di falchi, profondamente convinti della necessità che gli Usa mantengano il proprio primato a livello internazionale. Ad accomunarli a Trump vi è la loro persuasione che continuare ad aiutare l’Ucraina contro Mosca sia uno spreco di risorse (che semmai dovrebbe fornire l’Europa), e che sia la Cina il vero avversario dell’America.
Altra caratteristica che essi condividono è la pressoché totale adesione alle politiche israeliane, e uno spiccato sentimento anti-iraniano. Volendo fare un paragone un po’ provocatorio, in politica estera la prossima amministrazione Trump sembra quasi assomigliare a una riedizione repubblicana, un po’ più spigolosa, della prima presidenza Obama. Anche quest’ultima, dovendo fare i conti con le macerie lasciate dal predecessore George W. Bush, aveva promesso il disimpegno dalle fallimentari imprese militari oltreoceano (Afghanistan e Iraq). Tale promessa, tuttavia, non diede luogo a un vero ripensamento del ruolo americano nel mondo, ma solo all’adozione di politiche come l’offshore balancing (il bilanciamento delle potenze regionali a vantaggio degli Usa) e il leading from behind (l’impiego di forze locali nei conflitti regionali, sotto la guida americana). Con i risultati disastrosi che tutti ricordiamo, dalla Libia alla Siria, allo Yemen.
Anche Trump ha giurato di voler porre fine alle guerre, dall’Ucraina al Medio Oriente. Ma volersi sottrarre a un conflitto non è sufficiente ad evitarlo. E’ necessaria una visione alternativa, un’idea di come ricomporre i contrasti che lo hanno determinato. Trump non ha formulato una simile visione in Ucraina, e di certo neppure in Medio Oriente. E ancor meno in grado di formularla sembrano essere i personaggi da lui scelti per ricoprire gli incarichi chiave della nuova amministrazione.
*Autore del libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione israeliana” (2024).
Twitter: @riannuzziGPC
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