di Leonardo Botta

In principio furono gli sms (Short Message Service): brevi messaggi istantanei supportati nella digitazione dall’innovativa tecnologia T9, scambiati tra telefoni cellulari quando questi erano ancora rozzi e pesanti antenati dei moderni smartphone. Messaggi a pagamento, per cui il loro uso era sobrio, come sobrie erano le telefonate gravate da costi a consumo e famigerati scatti alla risposta. Presto queste scarne pillole di comunicazione senza fili furono integrate dagli mms, che veicolavano non caratteri alfanumerici bensì i primi contenuti multimediali.

L’arrivo dei device connessi a una rete dati sempre più performante (dal Tacs al fantasmagorico 5G) fece precipitare gli eventi. Nonostante la scomparsa dei tastierini fisici a vantaggio dei touchscreen digitali, si invertì il trend di riduzione delle dimensioni fisiche dei dispositivi: oggi non trovi uno smartphone sotto i sei pollici manco se ti appelli a tutti i santi; del resto, cantavano Fedez e J-Ax, “l’iPhone ha preso il posto di una parte del corpo / infatti si fa gara a chi ce l’ha più grosso”. Intanto i contratti telefonici voce e dati a canone flat sempre più convenienti, fin sotto i dieci euro mensili (ormai l’imprecazione sconfortata che sentivo una volta, “Nun tengo ‘e giga!”, è un pallido ricordo), e la massiccia disponibilità di reti wifi davano il la a comunicazioni sempre più sofisticate.

La sto facendo lunga: voglio dire che, dopo l’epoca del Messenger di Facebook, è arrivata la rivoluzione copernicana di Whatsapp che, agganciando le funzionalità dell’app al proprio numero telefonico, ha letteralmente stravolto le modalità di connessione tra persone e (novità sensazionale) tra ‘gruppi’. Qualcuno aveva intuito per tempo l’insidia di questo diabolico strumento: a un collega chiesi, ormai un po’ di anni fa, perché non utilizzasse Whatsapp. La risposta fu lapidaria: “Il lavoro mi lascia già così poco tempo libero!”.

Da allora si è assistito a un’escalation bulimica: non passa giorno che Dio manda in terra senza ritrovarsi inseriti in qualche nuovo gruppo. Ce n’è davvero di tutti i tipi e per tutti i gusti: quello dei colleghi di lavoro (il colmo capita agli insegnanti, incastrati tra vari consigli di classe, plessi scolastici, gruppi di coordinatori, dipartimenti), genitori, circoli politici e ricreativi, associazioni, compagni di scuola, calcetto, pizza, balli latino-americani, bici domenicale, vacanze, varie ed eventuali. Fatalmente questa iperattività comunicativa ha principiato a mettere a dura prova la nostra pace interiore: per chi non osa silenziare il proprio dispositivo il tempo scorre tra un proliferare di bip-bip molesti, magari accompagnati da vibrazioni fastidiose come un trapano a percussione, a tutte le ore del dì e della notte (mentre i libri stanno scomparendo dai comodini). E stendiamo un velo pietoso sulla psicosi collettiva da spunta blu, spesso causa di pesanti reprimende all’indirizzo di chi “hai letto ma non mi hai risposto!”.

Che fare, dunque, se non rassegnarsi a un sempre più patologico esaurimento nervoso da overflow di “buongiorno, buonanotte e buon weekend”? C’è poco da fare: disinstallare l’infernale app pare proprio non sia possibile: ormai anche le comunicazioni di lavoro, farcite di file allegati sempre più grandi, si stanno spostando dalle caselle di posta elettronica al “telefono verde”. Occorrono dunque strategie di mitigazione che puntino a limitare il danno, ahinoi non più azzerabile.

E quindi, senza perdere altro tempo, via le notifiche di ricezione (W la spunta grigia!), disattivare lo stato e i segnali acustici; e poi drastica selezione dei gruppi e controllo solo saltuario (al massimo un paio di volte al giorno) della messaggistica. E quando proprio l’esasperazione ci attanaglia, una bella ‘modalità aereo’ per qualche ora può essere l’ultima ancora di salvezza: per chi non è medico e non ha vite umane da soccorrere in poco tempo, non c’è nessuna faccenda che non possa essere rinviata al giorno dopo.

Già, facile a dirsi.

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