Ambiente & Veleni

Il terremoto in Irpinia fu uno spartiacque: ora l’Italia è all’avanguardia. Resta solo una cosa da fare

Ho un ricordo vivido di quella domenica sera: 23 novembre 1980, ore 19:34. Dopo la scossa, fortissima come mai avremmo immaginato, uscimmo di casa e nostro padre ci portò in auto alla sede Enel di Benevento. Lui, ingegnere elettrotecnico a capo della zona di Benevento, che comprendeva una vasta area che confinava con l’Irpinia, ebbe come primo pensiero quello di capire cosa fosse accaduto nella ‘sua’ zona. Fece telefonare a tutte le agenzie Enel che dipendevano da Benevento, sempre presidiate da tecnici pronti ad intervenire per possibili guasti; dopo un’ora circa, lo vedemmo uscire scuro in volto, e disse: ‘quasi tutte le agenzie nelle zone localizzate verso l’Irpinia non rispondono: è successo qualcosa di tremendo…’.

Credo sia stato uno dei primi, nelle aree non coinvolte direttamente dal disastro, a rendersi conto dell’enormità della tragedia.

Il terremoto Irpino-Lucano, di magnitudo 6,9, fece 2914 morti, 8848 feriti e 280mila sfollati; ma fu anche un vero spartiacque: dopo quell’evento l’Italia scoprì la sismologia e la geologia moderne, e nacque il primo embrione di ciò che divenne poi la Protezione Civile Nazionale. Quel terremoto, che sembrò infinito a chi lo avvertì nelle zone limitrofe, era in realtà composto di tre forti eventi, che accaddero in sequenza a distanza di circa 20 secondi l’uno dall’altro. La terra tremò quindi, anche nei punti sorgente, per 60 secondi: un’enormità, se si pensa che terremoti di quella magnitudo durano in genere non più di 10-15 secondi alla sorgente. A quell’epoca non esisteva ancora la rete sismica nazionale centralizzata (gestita oggi da Ingv), ma tante reti locali con gestori diversi. Passarono quindi alcuni giorni prima di comprendere a pieno le dimensioni della tragedia, e quali fossero le zone più colpite.

Questo amplificò ovviamente la tragedia e il numero delle vittime; fece anche capire che c’era bisogno di un unico centro di raccolta dati che localizzasse velocemente e con precisione i forti terremoti, nonché di un servizio di Protezione Civile pronto ad intervenire in emergenza. Ma quel terremoto fece anche progredire velocemente, in pochi anni, la sismologia e la geologia in Italia. A quell’epoca, la maggior parte dei geologi italiani era convinta che, a differenza delle grandi faglie in Usa, Giappone, ecc., le faglie sismogenetiche in Italia non si potessero vedere in superficie, perché mascherate dalle coltri sedimentarie. Così, subito dopo il terremoto, si cercarono le tracce superficiali della faglia, con scarsa convinzione perché convinti di non trovarle; infatti non si trovarono, anche perché la ricerca era resa difficile dalla neve. Però, due gruppi diversi di geologi le trovarono e le descrissero: pubblicarono però su riviste nazionali di scarso impatto, e le interpretarono come movimenti superficiali ‘indotti’ dal terremoto, non come tracce di faglie primarie.

I sismologi napoletani dell’Osservatorio Vesuviano, però, studiando la distribuzione dei terremoti successivi (repliche) e delle deformazioni del suolo rilevate con livellazioni di precisione fatte qualche anno prima e subito dopo il terremoto dall’Istituto Geografico Militare, avevano descritto quasi perfettamente la struttura di faglia responsabile del terremoto: mancava soltanto l’evidenza geologica. E quella venne nel 1984, quando due geologi inglesi – Rob Westaway e James Jackson – pubblicarono su Nature le tracce di faglia, evidentissime, con rigetti fino ad 1,2 metri, rilevate principalmente a Monte Marzano (SA), e poi alcuni chilometri più a sud, vicino al Pantano di San Gregorio (SA). Avevano trovato le tracce di faglia del primo e del secondo evento sismico; in realtà, gli autori avevano letto i resoconti dei due gruppi di geologi italiani che avevano già rilevato quelle tracce, sebbene le avessero attribuite a movimenti indotti secondari: così andarono a colpo sicuro, e capirono che quelle erano proprio le faglie che avevano generato il terremoto.

Ora, la geologia e la sismologia davano risultati perfettamente coerenti, e un paio di anni dopo si capì anche la posizione del terzo evento: era localizzato nei pressi di Conza (AV) su una faglia parallela alla prima, con vergenza opposta (la prima e la terza faglia erano inclinate di circa 60° verso NE, la seconda di circa 70° verso SO). Tutte e tre le faglie, dette ‘normali’ nel gergo sismologico, indicavano un movimento di estensione della parte superficiale della crosta: movimento opposto a quello, di compressione, che aveva generato gli Appennini: segno evidente che la microplacca adriatica, che subduce al di sotto del bordo tirrenico, non è più in compressione. Infatti, tutti i terremoti appenninici oggi indicano una progressiva apertura della catena montuosa, che diminuisce progressivamente da Sud a Nord; perché la microplacca adriatica è in rotazione antioraria, intorno ad un polo localizzato nell’Appennino settentrionale tra Piacenza e Torino.

Il terremoto Irpino fu uno spartiacque: dopo di esso, la geologia e la sismologia italiane hanno fatto passi da gigante, diventando avanguardia nel mondo ai livelli di altri paesi leader come Usa, Giappone, ecc. Per questo oggi abbiamo un catalogo dettagliato di faglie sismogenetiche, una rete sismica nazionale tra le più dense e avanzate al mondo, gestita da Ingv; abbiamo una mappa di pericolosità sismica e conoscenze ingegneristiche estremamente affidabili, e un servizio di Protezione Civile Nazionale. Ora ci serve soltanto costruire e/o consolidare con criterio i nostri edifici.